Il dolore di Maria come Nadia che ha perso un figlio nel Lugansk

Stato Donna, 17 aprile 2022. È la Croce il simbolo di questa Pasqua. La sintesi e la manifestazione sublime del dolore estremo, quello di un Figlio che un Padre decide di sacrificare e di una Madre che lo guarda morire, inerme. La croce che viene declinata in mille modi e in uno di questi ci riconosceremo tutti, magari anche solo una volta nella vita, se saremo fortunati. Anche se dovesse essere una cosa tipo croce e delizia, che sembra quasi blasfemo o il nome di una torta troppo calorica.

È nella semplicità della Croce, due pezzi di legno uniti dal nulla, che si riconosce la forza di un messaggio che non passa mai e che vorrei definire un attimo di eterno, se non lo avesse già detto qualcuno. Mi ha sempre interdetta la Croce, che percepisco come un luogo materiale, uno spazio fisico, tangibile, quello dove Colui che per me è massimo Spirito vede distrutto il suo corpo, che non muore soltanto ma viene violato, offeso, vilipeso. Ben più di un ossimoro.

E ce lo chiediamo tutti, come chi era lì e lo derideva. Perché non si è salvato? E non ci basta l’obbedienza studiata nelle ore di catechismo, come risposta. Né possiamo ricorrere al fatalismo e accusare il destino. Penso che sia perché ha scelto, semplicemente. Ha scelto di caricarsela prima, e di morirci poi. L’ha scelta. Incomprensibile per noi, diciamo la verità. Ma è naturale questo, non ci dobbiamo stupire. Siamo umani, finiti e lo abbiamo studiato in filosofia e ne prendiamo atto e un po’ ci serve anche come giustificazione. Insomma, più di tanto non possiamo mica fare.

Fino a quando poi magari la vita si mette di traverso e ci presenta qualche inciampo che noi chiamiamo croce, ma forse con un po’ di presunzione. O forse no. Perché di motivatori ce ne abbiamo in quantità e quindi lo sappiamo bene che la vita non è quello che ci succede, ma come noi lo interpretiamo. Non lo so. So che esiste una scala del dolore fisico in medicina e ti diranno mentre partorisci “non ti preoccupare, poi te lo dimenticherai quando vedrai tuo figlio”. Che sicuramente è vero, ma te lo dimentichi perché difficilmente proverai un dolore paragonabile a quello, a meno che tu nella vita poi non abbia la sfortuna di avere anche una colica renale o altre cose che non voglio citare.

Ma esiste una scala del dolore non fisico? Quello che poi comunque può essere tanto forte da diventarlo? Che non so neanche come si possa chiamare. Esiste una classifica di chi soffre di più? Un premio? “…and the winner is…”. Ma non c’è un vincitore, c’è solo un vinto. Vinto, a prescindere da quello che pensano gli altri, e a prescindere dal dolore. Perché gli psicologi ci dicono che non dobbiamo paragonare le sofferenze, che è sbagliato perché ogni dolore ha una sua dignità e si supera solo se attraversato ed elaborato. Ed è così, certo. Solo che le parole della medicina e quelle della psicologia spiegano, descrivono, classificano ma allontanano dalla sensazione vera che è tagliente e non è scritta sui manuali, perché parla attraverso le lacrime e le grida, con un linguaggio tutto suo.

Per questo qualcosa stride, dentro di me. Quale dolore ferisce di più? Quello di Nadia che ha perso suo figlio Stefano, trentotto anni, nel Lugansk e che dopo sedici giorni ancora non le hanno restituito il corpo perché è morto insieme ad altri duecento del suo battaglione e non è facile riconoscerli. Che poi lei si è ricordata di una cicatrice sul polso destro e così hanno saputo che è lui. E oggi fanno il funerale, e là sono le Palme e il sacerdote ieri le ha detto che si è scelto un giorno importante, Stefano, per il suo funerale. Già.

Oppure quello di chi è stata lasciata dal compagno e piange disperata attribuendo a lui tutte le responsabilità e si interroga ma ogni mea culpa dura il tempo strettamente necessario per decidere che comunque è colpa dell’altro.Quello di chi ha visto morire il figlio con una dissecazione dell’aorta ed è anche dovuta andare a comprargli il vestito per seppellirlo, perché è morto in un ospedale di una città che non era la loro. E non ha avuto cuore di dirlo alla commessa, perché le sembrava poco dignitoso.

Oppure il dolore di chi passerà la Pasqua da solo, perché è positivo alla Covid e piange perché non può andare a pranzo con i parenti. O quello di chi ha portato in grembo una bimba per sei mesi e aveva comprato tante cose e poi in un soffio è finito tutto. Non lei, che ora ne ha un’altra di figlia ma mai dimenticherà quella piccolina.O il dolore di quel padre separato che si sente abbandonato da due figli adolescenti che secondo lui lo cercano solo se hanno bisogno. E forse è così o forse no, ma lui quello percepisce, e con quello deve fare i conti.

Sono tanti i dolori. Innegabilmente, con valori assoluti e relativi differenti. Che ti fanno arrabbiare a volte, e vorresti dire a chi si lamenta per certe cose che ti paiono stupide (ma non è la tua vita e non puoi sapere e men che meno giudicare) “ma guardati intorno, cavolo” e non lo fai perché alla fine ogni croce è Croce. E ciascuno la vive come sa e come può, e non la considera come quella che gli viene data perché è in grado di portarla, ma come quella che deve portare perché gli viene data. E non è rassegnazione, ma accettazione. È una frase bella, per me la più bella, della Via Crucis di venerdì e che forse un po’ rivisitata condivido perché faccio fatica ad immaginare Nostro Signore come un addetto alla logistica che smista e distribuisce croci, in base alla resistenza del soggetto. E al tipo di legno. “Qui il pino finlandese, là il faggio”. Che anche quello conta.

Piuttosto lo vedo a distribuire fortezza. “Ne aggiungo un po’ qua, che è troppo questo peso, suvvia”. Ecco, così mi pare meglio. E poi penso che Cristo però, mentre moriva, già sapeva che sarebbe risorto ed è forse questo il pezzettino che a noi manca perché, se lo sapessimo anche noi, magari ogni dolore, anche quelli che non possiamo nemmeno immaginare, lo vivremmo diversamente. E sapremmo portare meglio anche quella Croce che pare, adesso, sopraffarci.

Simonetta Molinaro, 17 aprile 2022

 

 

4 Commenti

  1. Cara Simonetta, questo tuo racconto posso dire che è “‘una grande lezione di vita”- la scala dei dolori, già, ma chi siamo noi per poter pensare che la nostra sofferenza e maggiore delle altre, non possiamo saperlo. Io sento tante storie che mi raccontano, e spesso penso, credo, che a volte le persone soffrono per loro scelta, uno stillicidio continuo che si autoinfliggono, è successo pure a me, basterebbe avere la forza di volontà per dare un taglio netto a certe relazioni. Naturalmente se parliamo di dolore fisico anche qui pur esistendo una scala del dolore varia da individuo ad individuo….e la morte? – su questa non ho dubbi, la morte di un figlio o nipote non è paragonabile a nessun ‘altra morte, a nessun dolore….scusa se non mi sono addentrata sul tema della fede ma io sono cristiana a modo mio, sicuramente più di tanti altri che l’innalzano come bandiera. Sempre complimenti tesoro ❤️

    • Liviana🙏… Tu chiami “lezione di vita” delle riflessioni necessarie, a volte. Per il periodo storico, ad esempio, o per un momento personale.
      Riflessioni ad alta voce, condivise con chi avrà la gentilezza di accoglierle.
      E tu ci sei sempre.
      Ti abbraccio 🤗❣️

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