Su quel gommone ci raccontavamo le nostre vite fra vino, pane e ricci

Stato Donna, 10 aprile 2022. Mi arrivava un messaggio senza troppe parole. “Alle due”. Sapevo cosa significava. “Nuci lu pane”, porta il pane, mi aveva scritto la prima volta. Così, per prendermi in giro, perché quello non era il mio dialetto, che è più duro e senza consonanti, rispetto a quello che invece è come una cantilena, una musica, e poi perché per prendere il pane che voleva lui dovevo andare in uno di quei forni che sembravano abusivi, a pianoterra in una di quelle stradine che conoscono poco gli angoli retti, ma sono quasi circolari, in quella cittadina tutta bianca, con le case di tufo e calce che disinfetta, dicono. Stradine che iniziano davanti ad una chiesa e terminano sotto una torre, avvolgendosi attorno alle mura di un ex convento, con giardini pensili dai quali cadevano roselline diverse in ogni stagione dell’anno, e dove l’orologio alla fine di quella strada che custodisce vetrine con santi di cartapesta e acquasantiere di ceramica è una compagnia rassicurante con i suoi rintocchi che quando lo hanno chiuso per restauro, ci mancava un pezzo a noi che abitavamo lì, in quella specie di panopticon, dove si vive quasi in mezzo alla strada e tutti vedono tutti. E se non vedono, immaginano.

Ce ne avevo uno proprio sotto casa, di forno, e quando mi vedeva entrare il panettiere si agitava. “Dottore’, mo’ so’ uscite…quelle piatte, le vuoi?” Sapeva che mi piacevano di più le frise piatte sotto, che rimangono più croccanti anche quando le immergi nell’acqua e poi le condisci con i pomodorini a pendolo che fanno da controsoffitto nei garage. Mi aveva spiegato come si fanno. Si tagliano a metà e quella che piace a me è quella che poggia sul piano del forno a legna. Me le metteva da parte, che un po’ mi vergognavo del privilegio, ma lui mi sorrideva con un sorriso tanto contagioso quanto buffo, e tenero che dei denti c’era solo il ricordo, ormai. E poi mi dava il pane, caldo caldo, basso con la crosta dura e profumata di grano duro. Ogni volta che entravo, mentre i miei occhi si abituavano all’oscurità e i miei recettori alla temperatura equatoriale, pregavo che non arrivassero i NAS proprio in quel momento e nel silenzio del mio cuore chiedevo scusa a mio padre, specializzato anche in Igiene e a mia madre, che non ci ha assillati con le pattine per il pavimento e con la pulizia maniacale, ma ci ha cresciuti nel piacere delle cose pulite e profumate. Il profumo, quello c’era eccome. Prendevo frise e pane e scappavo.

Anche in quelle mattine di settembre, con Francesco, gli ultimi giorni di mare prima della scuola. Appuntamento al porticciolo, dove gli altri ci aspettavano. Primo settembre, primo giorno di ferie per me, mese con la erre. Voleva dire che si potevano mangiare i ricci, e non è superstizione, ma natura. Io, Caterina e i bambini, tutti sul gommone di Archimede, in quella specie di rito che per sette anni siamo riusciti a consumare. Per sette settembre. Arrivavamo al largo e ci fermavamo. Anche lì era preciso e meticoloso. Cestino da picnic, coltello per il pane, coltello per i ricci. Bicchieri di vetro per carità, che per un uomo di mare “plastica” suona come una bestemmia già da sola, figuriamoci per lui nella stessa frase con “vino”. Un’eresia. Vino bianco fresco per noi, Coca Cola per i piccoli. Io li guardavo, mangiando pane e olio, un olio verde che mi portava dal frantoio, mentre lui, Caterina e i bambini divoravano i ricci con il pane ancora caldo. Giravo la testa per non vedere Francesco impegnato con le sue manine in questa pratica perché io neanche pagata, anche se non filtrano e sono sicuri e tutte quelle ciance che mi raccontavano per convincermi. Mi guardavano ridendo e mi dicevano “cittadina”, “quella del settimo piano” mi chiamavano e ridevamo godendoci la pace e la tranquillità di quei momenti perfetti.

Erano tutti a pranzo, quelli che ancora non erano partiti per tornare in città, al fresco di case di mare, con patii accoglienti e giardini in penombra, con lettini dove riposarsi dopo pranzo, certe volte anche sotto gli oleandri che poi venivano in farmacia per paura di essersi intossicati. Noi invece, mentre i bambini dormivano sotto al tendalino, mangiavamo la frutta che lui portava già tagliata a pezzi, pulita. Ananas, banane, mele, kiwi, e poi la frutta tropicale, quando ancora non era così di moda. Eravamo felici e anche tristi, perché Caterina sarebbe partita il cinque, come ogni anno. E stavamo lì, seduti con i piedi in acqua che di più no, altrimenti ci viene la congestione, li minacciavo. E poi Caterina prendeva il thermos con il caffè, molto caffè, e parlavamo, parlavamo e Archimede ci ascoltava, anziano e saggio, ma di quella saggezza bella, ironica e profonda mai pesante. Quella che ti sfiora e tu la devi afferrare perché altrimenti scappa e perdi l’attimo. Quella saggezza gentile che pennella tocchi finali su dipinti ormai quasi terminati. Quella saggezza delicata che sa ma non lo da a vedere, che non ha bisogno di motori di ricerca per darti risposte, e neanche di domande, a volte. Quella che un po’ la strada te la indica, ma poi ti dice che il sentiero te lo devi aprire tu.

Archimede ci aveva conosciute grandi già, con le nostre fragilità che lo intenerivano e ci voleva bene. Lui, che non aveva figli, si prendeva cura di noi, di me poi anche nei bisogni primari tipo il cibo, che secondo lui era sempre troppo poco quello che mangiavo, e anche ora mi manderebbe pacchi di vivande. Su quel gommone, in quei quattro giorni, ci raccontavamo le nostre vite, quelle passate, quelle che vivevamo, quelle che avremmo voluto vivere. E svisceravamo situazioni anche se ancora non sapevamo cosa fosse il brainstorming e cercavamo soluzioni senza offrirle, ma suggerendo con discrezione che sembrasse l’altro esserci arrivato da solo, per non mortificare orgogli già provati e dignità a volte calpestate. Due ore e poi tornavamo a riva. Con parei a coprire abbronzature un po’ più lucide e il cestino da picnic vuoto nascosto sotto un telo, pronto per essere riempito per il giorno dopo, in questa specie di porta teco spartano, dove il vino, il pane, i ricci erano il contorno.

Noi tre il piatto forte, con le nostre anime che si intrecciavano, come oggi che Whatsapp ci teme e per noi ha inventato le videochiamate multiple, come dice Teresa, la moglie di Archimede, che interviene ogni tanto apparendo dal nulla e lo rimprovera perché dice che è diventato brontolone e che quando passa definitivamente la pandemia ce lo dobbiamo tenere a turno io e Caterina. Parliamo senza mare, senza ricci, senza vino, senza gommone, con i ragazzi che sono grandi e noi due ci dobbiamo tingere i capelli e lui invece li porta fiero i suoi, candidi e lunghi, ancora. Saggio e bello e abbronzato. Il nostro antidoto alla malinconia e alla stanchezza di certi giorni, quando tutto sembra perchè magari lo è, complicato. E tutto è stato detto già, e quello che serve davvero è un silenzio pieno di sentimento. Due ore, per ripartire.

Simonetta Molinaro, 10 aprile 2022

Simonetta Molinaro

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