Stato Donna, 27 marzo 2022. L’avevo conosciuta sulla spiaggia, di domenica. Per caso, perché io la domenica non andavo mai al mare. Di solito lavoravo, e quando non succedeva, il sabato sera, prima di andare via, verso le otto dicevo, facendogli l’occhiolino, ad Archimede, il custode della spiaggia viticoltore, marinaio, filosofo e ultimo baluardo, a suo dire, della pugliese mascolinità, che il giorno dopo avrebbe potuto affittare il mio ombrellone, e i lettini. “Brava, dove te ne vai? Dove lo porti lu piccinno?” Gli comunicavo la meta, che era di solito una città, Lecce o Matera, o comunque uno di quei luoghi dove la domenica d’estate nessuno si arrischia ad andare, perché il caldo è allucinante, e la luce che riflette sulle pietre bianche, abbacinante.
Ma a me piace. Mi piace camminare in strade semideserte, entrare in chiese dove non c’è neanche il parroco, ma sono fresche e ti accolgono, silenziose e ristoratrici. Oppure arrampicarmi per viuzze piccole e tortuose, e poi fermarmi a mangiare in posti scavati nella roccia, dove l’odore del tempo è forte e i profumi sono quelli della cucina di una volta, quella che qui non si è mai persa, con il pane cotto nel forno a legna, e l’olio quello buono, verde e pungente e i pomodorini a grappolo che, anche in inverno, appesi nelle cantine non perdono la loro dolcezza.
Mi piace di più della spiaggia affollata, dove il caldo lo combatti se vai in acqua, certo, ma devi chiedere permesso, per avvicinarti alla riva. Di solito Archimede approvava le mie scelte, scuotendo la testa per muovere meglio i capelli e il ciuffo che una vita al mare aveva schiarito naturalmente, con delle mèches che nessun parrucchiere, neanche bravissimo, potrebbe riprodurre. Capelli ai quali la compagna si aggrappava furiosamente quando litigavano perché lui faceva lo spiritoso con qualche turista arrivata da poco, troppo poco per accorgersi che Archimede era un po’ farfallone. Cosa invece che sapeva benissimo la compagna che non si è mai capito se avesse dei radar o un basista che la avvisava della nuova conquista.
Fatto sta che arrivava al bar, alta, con un caftano bianco lungo fino ai piedi, cappello di paglia, occhialoni da vamp. Noi ormai lo sapevamo e a turno li andavamo a separare, e velocemente anche, dopo che la prima volta, colti alla sprovvista, dai lettini in riva al mare avevamo assistito sconvolti a questa scena terribile, con lei che lo graffiava e gli tirava i capelli, e lui che la schiaffeggiava. Eravamo corsi tutti e qualcuno aveva chiamato la polizia, ma dopo dieci minuti, loro erano di nuovo a parlottare e a scherzare, e a ridere. La polizia era andata via, e noi tutti eravamo tornati sui lettini, un po’ sgomenti, ma abituati ai personaggi.
Comunque, a parte quando era impegnato a picchiarsi con la compagna, Archimede era simpatico, e arguto. Battute ironiche, vino bianco gelato e vassoi di frutta le sue armi vincenti. Andavamo lì da anni, e ci conoscevamo tutti, perché eravamo sempre gli stessi, su quella spiaggetta piccola e deliziosa, dove si stava d’incanto.
Quella domenica, non ricordo perché, non eravamo andati da nessuna parte. Ero arrivata prestissimo in spiaggia con Francesco e gli mettevo la crema sulle spalle e sul nasino e lo guardavo e pensavo che era bello, con i capelli dorati ed un’abbronzatura tropicale conquistata correndo sulle dune tra il bar e la spiaggia e poi in acqua, quel mare così trasparente che vedevi i pesciolini, piccoli e aggressivi che ti pizzicavano se stavi fermo e ti costringevano a camminare. Lei era sotto l’ombrellone di fianco, con il marito e una bambina bionda bionda.
Che iniziò a giocare con Francesco, mentre noi chiacchieravamo come si fa di solito. Ma si capiva che era inquieta. Andava di continuo nella borsa e prendeva in mano il telefono e Whattsapp non esisteva ancora e forse lei cercava messaggi che non arrivavano. O forse sì. Facemmo amicizia in fretta. Erano di Milano e si erano fermati per caso e poi avevano deciso di rimanere, conquistati dalla spiaggia e da Archimede. I bambini si adoravano, stavano insieme tutto il tempo, la mattina quando c’ero io, il pomeriggio quando arrivava la babysitter mentre andavo a lavorare, la sera quando iniziammo a cenare insieme e poi ad uscire, per un gelato o un giro sulle giostrine, in piazza, sotto il faro bianco e rosso.
Mi faceva morire dal ridere. Imitava le sue colleghe, quelle più anziane, con gli occhiali sul naso e problemi di certi ormoni che non stanno bene su una donna, e causano effetti collaterali, ma niente che non si possa risolvere con una buona ceretta. E poi la preside che, una volta, durante un consiglio di classe le si era rotto l’elastico della gonna. Parlava a raffica, mentre prendeva il sole con una precisione scientifica, trenta minuti supina e trenta minuti a pancia sotto, con le braccia alzate sulla testa per abbronzarsi anche di lato. E il viso, quindici minuti la guancia destra e quindici quella sinistra.
Io, sotto l’ombrellone, studiavo per l’esame di psicologia generale e le dicevo “Lo sai che è psichiatrico il modo in cui prendi il sole, vero?” E ridevamo assai, bevendo caffè al ghiaccio e mangiando mandorle fresche, che compravamo in spiaggia da un ragazzino che gridava “Le comprate adesso e le pagate a Natale” e poi ti diceva “Due euro” ” Ma scusa, non le dovevo pagare a Natale?” “Signo’ che io mi chiamo Natale”. Le ripetevo l’esame e lei, laureata in pedagogia, mi interrogava ed era cattiva, che poi all’esame ho preso trenta e lode e l’ho chiamata subito, prima di tutti e lei era stata così contenta e aveva detto “Vedi che ho fatto bene ad essere severa?”
“Come stai?” Le chiedevo al telefono, perché poi me lo aveva raccontato, il suo pensiero fisso. Aveva una storia, anzi si era innamorata. Di un collega. Uno che nella vita aveva cambiato una donna al mese. Che andava da lei a raccontarle i discreti casini che combinava, certo di non essere giudicato. E si era innamorato anche lui. Se lo erano detto, e avevano deciso di non vedersi più, ma era difficile. Impossibile. Il marito, che non amava più da tempo ma al quale aveva poco da rimproverare, se non una scarsa ambizione, e un certo modo passivo di affrontare la vita, aveva intuito. Ed era impazzito. Le rinfacciava i soldi spesi dall’estetista, e dal parrucchiere. La spiava per vedere che biancheria intima indossava, e le nascondeva le chiavi di casa e della macchina per non farla uscire.
E lei scappava. “Caterina, ma che fai…” le dicevo. Perché era impazzita anche lei. E lo raccontavo ad Archimede, quando certe sere, tornando dalla farmacia, mi fermavo da lui che mi faceva trovare una cosa calda da mangiare e un bicchiere del suo vino, che per fortuna non c’era l’etilometro, e mentre cenavamo mi chiedeva “Che dice l’amica tua?”
“Piange perché non sa che fare”.
“Devi chiederle se da vecchia vorrà essere le parole che non ha pronunciato, le porte che non ha aperto, la bellezza che non ha cercato, le risposte che non ha avuto, le follie che non ha fatto, i baci che non ha dato”.
Ero indecisa, pensavo al marito e alla bambina, ma lei stava malissimo e mi era sembrato come un tradimento il mio silenzio, così alla fine gliele avevo riferite quelle parole. Non mi aveva risposto, ci eravamo salutate. E poi, il giorno dopo mi aveva richiamata. “Ha ragione lui Simonetta”, mi aveva detto. Io non voglio essere l’amore che non ho vissuto”.
E hai ragione anche tu, Caterina. Nessuno dovrebbe esserlo.
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