Stato Donna, 20 marzo 2022. “Mi dai quella fetta di strudel, per favore?” Io, dietro di lui, avevo visto che era l’ultima e avevo fatto un segno al ragazzo del bar, che era un mio amico da quando avevo cinque anni e giocavamo e lo facevamo ancora certe sere, a rubabandiera e a palla avvelenata, sul piazzale di quella chiesetta bianca e rossa, davanti casa mia.
“Non posso, mi dispiace, è sua” aveva risposto lui indicando me con l’ingenuità di un ragazzino di quindici anni, che non sa ancora che il cliente ha sempre ragione. Io, dal mio canto, mi limitai a sorridere, “Grazie” allungai il braccio e andai via con lo strudel. L’ultima
fetta. Mi corse dietro. “Dammene un pezzo, oggi è il mio onomastico”. “Non ho capito” “Facciamo a metà”. Mi convinse, anzi la mangiò tutta lui, perché io ero troppo occupata a ridere, e mentre io ridevo lui mangiava. Entrambe le metà.
Eravamo nella piazza di quel paese incantato, tra monti che si chiamano Pallidi ma sono rosa, all’alba e al tramonto, e sempre. Nel bar più bello, dove quando non ero per sentieri attrezzati e vie ferrate passavo il mio tempo, con quegli amici che arrivavano da ogni parte d’Italia, con i quali l’inverno ci si scriveva lettere che a settembre erano di quattro pagine, ad ottobre di tre, a novembre di due, a dicembre solo gli auguri di Natale.
Poi, da gennaio in poi, nulla, ma ad agosto era un tripudio. Un mese sempre insieme. Quell’anno, ne avevo tredici, e anche lui. Ci incrociavamo nell’unica sala giochi, quella del bar Maria, dove la sera i grandi ascoltavano il pianista del piano bar e i piccoli si sfidavano al Pac-man. Ci guardavamo, ma non ci salutavamo neanche. Lui con i maschi, io con le femmine. E ci vergognavamo un po’ perché nessuno sapeva di quello strudel davanti al quale c’eravamo conosciuti. Quando ci eravamo scoperti nati a quattordici giorni di distanza, io prima.
Scoprimmo anche che i nostri padri erano amici. Il mio sempre alle prese con condoni, posti auto, pertinenze, passava quel mese di vacanza tra l’ufficio tecnico e il Catasto. E a chiacchierare, anche, con il suo amico, che stava lì, al Comune. I nostri padri, morti a sei mesi di distanza l’uno dall’altro, e con brutti mali. E le nostre mamme, che si telefonano sempre, anche oggi e si raccontano cose che conoscono a memoria. Tutti i pranzi e le cene insieme, loro, noi mai, ormai ragazzi eravamo in giro con fidanzati e fidanzate. Poi mariti e mogli. Ma questo viene dopo.
Nel frattempo però era arrivato un altro agosto e ne avevamo quattordici di anni e ci incontrammo sul ponte che affaccia sul torrente, ed era tutto uguale ma un po’ più da grandi. “Domani è il mio onomastico”. Ed era bastato, avevo capito. Alle nove ero lì e lo trovai pronto con lo strudel, uno in due, e di nuovo risate e chiacchiere belle ed innocenti.
Quindici anni. Sedici. Sempre uguale, lo strudel e due forchettine.
E una mattina solo per noi per raccontarci un anno di vita. Cosa hai fatto, ma ti sei fidanzato, ma lui chi è. E poi, cosa vuoi fare da grande, litighi sempre con tuo fratello e tua madre rompe ancora? A diciassette anni qualcosa un po’ era cambiato, ma non noi. Il paese piccolo ci costringeva a condividere ed incrociare spazi, bar, osterie, amici e ci guardavamo, e anche gli altri ci guardavano e ci chiedevano. Ma a noi che ballavamo ogni notte di tutta l’estate sui tavoli da Poldo, un po’ alticci, e sudati e appiccicati che non sapevamo ancora niente del coronavirus, bastava quel giorno. Tutto nostro. Diciotto, diciannove, venti.
A ventuno, le bombe. Io, “mi sono fidanzata” e lui “mi sposo”. Cavolo, ma veramente? Veramente.
Poi, per ventinove anni non ci siamo più visti. Arrivavano a me i racconti di quello che faceva attraverso i nostri genitori, il lavoro all’estero, la separazione, un brutto incidente. A lui le cose mie. Francesco, la farmacia. L’anno scorso sono tornata lassù. E ci siamo incrociati, nella piazza del paese. Lui ancora con i capelli rossi, ma senza ciuffo stavolta, e qualche chilo in più magari. Io, sempre piccola e nera, meno nera però, perché dopo i quaranta il nero invecchia, e qualche colpo di sole aiuta.
Una scusa veloce e dopo cinque minuti eravamo al bar. Uno strudel e due forchettine, ha detto. Ci siamo raccontati in tre ore trenta anni di vita. Foto, aneddoti, storie, risate e lacrime. Per i nostri padri e per noi, perché quando piangi di dolore o di rabbia, o di delusione, piangi per te stesso. Per non saper cambiare una situazione, per non affrontare un problema, per non risolvere una questione o dirimere un conflitto. O per dolore e basta. Oppure, per il contrario, perché sei felice.
Come lui, mentre mi raccontava di quando poi aveva preso i voti. E questo non lo avevo saputo, però. O forse avevo voluto dimenticare. Di quando aveva deciso di partire per l’Africa, in un paese piccolo e lui un uomo grande e buono alle prese con un piccolo ospedale e tante mamme con i propri bambini. Piangevo anche io perché sentivo la sua, di gioia, e la serenità a ripagare molti dolori e certi rimpianti. Primo tra tutti quello di non aver avuto figli.
“Perché sarei stato un bravo papà, Simonetta” “Ne sono certa, Alessandro”.E quest’anno non ci siamo visti, e forse non ci vedremo più, non so. WhatsApp ci regalerà una fetta di torta virtuale. L’affetto, quello, è vero. Nostro.
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