Stato Donna, 15 marzo 2022. Stornara – Attende ancora di essere normata e regolarizzata a livello contrattuale, di inquadramento professionale e per il percorso formativo, la figura dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione. Ma, nel frattempo, accompagna e fornisce un valido supporto nell’apprendimento a numerosi bambini e ragazzi nel mondo della scuola.
Tale ruolo professionale si fonda su una relazione di aiuto, di mediazione e facilitazione comunicativa in ambito scolastico, al fine di raggiungere una reale inclusione nei confronti dei soggetti, in età evolutiva, con disabilità psicofisica, disabilità visiva, disabilità uditiva.
Già da anni impegnata in questa professione, nella scuola e partecipando a convegni vari, con passione, ne è un concreto esempio, la dottoressa Angela Troito, che ha riportato la sua esperienza a Statoquotidiano.
Il ruolo in questione, ci racconta, ad oggi è ricoperto prevalentemente da donne.
Forse non a caso.
Accompagnare, supportare, sono, infatti, certamente aspetti tipici della professionalità dell’assistente alla autonomia, ma che, innegabilmente, trovano naturale predisposizione in particolare nella sensibilità materna e nel trasporto atavico verso l’altro che caratterizza, per definizione, l’universo femminile.
Quando nasce, le abbiamo chiesto, la necessità di introdurre nel sistema educativo italiano la figura professionale dell’assistente alla autonomia e comunicazione?
“Da un punto di vista legislativo, un primo riferimento emerge dalla legge 104/1992, che evidenzia la necessità di garantire assistenza, integrazione sociale e diritti alle persone con disabilità, e che prescrive che vengano superati gli impedimenti derivanti dall’handicap. Affinché la persona disabile possa raggiungere la massima autonomia possibile, le vengono così garantiti, con tale provvedimento legislativo, tutti gli aiuti e l’assistenza necessari perché si favorisca un suo regolare svolgimento delle varie attività nella scuola e nella vita.
Tuttavia, non risulta ancora da tale disposto una chiara e specifica definizione della figura dell’assistente.
E ad oggi stiamo ancora aspettando la regolarizzazione di questa figura professionale”.
Qual è il percorso formativo da seguire per ricoprire tale ruolo lavorativo?
“In realtà, anche il percorso formativo non è ancora definito in modo specifico né chiaro.
Ne consegue che ogni assistente, detto anche educatore, può provenire da un percorso di studi diverso.
Vi sono tra noi coloro che hanno conseguito laurea umanistica, coloro che hanno conseguito una laurea ad indirizzo pedagogico, oppure che sono laureati in psicologia. E solo in un secondo momento hanno scelto una specificità attraverso corsi di approfondimento o perfezionamento in una delle tre aree della disabilità: psico-fisica, visiva, uditiva”
Lei, in quale area si è specializzata? E perché?
“Io mi sono specializzata nell’area della sordità, la cosìddetta disabilità invisibile.
Fin da bambina l’ho scoperta per caso e mi sono appassionata nel cercare di decifrare quel codice comunicativo condiviso tra le persone sorde, imparando da subito, come un gioco, il loro alfabeto “dattilologico” antico, poi evolutosi, così come ogni vera lingua viva.
Quello che ho imparato successivamente, infatti, è che la lingua dei segni italiana, oggi usata in vari ambiti da chiunque ne abbia bisogno e non possa comunicare con altri strumenti, è una vera e propria lingua.
Le lingue dei segni sono esattamente come le lingue parlate: hanno una grammatica, una sintassi, delle regole e dei vincoli, e non sono basate sulla lingua parlata nel paese cui appartengono, per cui ogni Paese ha la propria lingua dei segni. Per tale motivo il 19 maggio 2021, l’Italia l’ha ufficialmente riconosciuta come lingua minoritaria.
Io personalmente ne sono rimasta affascinata.
Sono andata alla ricerca di corsi di formazione che mi dessero la possibilità di utilizzarla anche in ambito lavorativo in senso professionale e ci sono riuscita affidandomi ai formatori sordi madrelingua in seno all’ENS, Ente Nazionale per la protezione e l’assistenza dei sordi.
È stato un percorso lungo e impegnativo ma, si sa, la motivazione e la passione possono smuovere montagne”.
Ritornando alla figura dell’assistente alla autonomia e comunicazione. Abbiamo detto che non risulta ancora normata. Cosa significa questo nei fatti?
“In tutta Italia non vi è una disciplina unica e condivisa a regolamentare questo ruolo. Ogni regione ha fatto, per così dire, un po’ da sé.
Per la Puglia, la nostra regione, per esempio, in passato l’assistente lavorava solo quando venivano concepiti progetti sulla base di finanziamenti e fondi che arrivavano a livello europeo alle regioni (Vedasi il progetto “Diritti in rete”). Più tardi, la gestione del servizio degli assistenti è stato affidato agli istituti scolastici che assumevano tali figure con contratti di prestazione occasionale o saltuaria. E in tale fase la figura dell’assistente ha sofferto tanto di una mancanza di continuità a fronte di un lavoro fatto con energia ed impegno.
A quel punto, la categoria ha cominciato a far rappresentare le proprie istanze dai sindacati.
E però nel frattempo il servizio degli assistenti veniva affidato alle cooperative che lo gestivano nel rispetto di capitolati che i vari enti dovevano rispettare”.
Insomma, un cammino impervio.
“Esatto. E stiamo ancora aspettando una piena regolarizzazione della figura dell’assistente.
Io sono tra coloro che hanno vissuto la vicenda e i vari passaggi in prima linea. Ed ho partecipato alle battaglie legali e sindacali per il riconoscimento di una stabilità contrattuale, un inquadramento professionale, la definizione di un percorso formativo specifico”.
Una lotta per il riconoscimento di una categoria che si ritrova a coincidere con la rivendicazione di un riconoscimento di una condizione lavorativa migliore per l’universo femminile, visto che molti assistenti all’autonomia sono donne.
“Esatto. Pertanto, il riconoscimento di tale ruolo qui viene a diventare un’occasione per chiedere un’apertura, anche su tale versante, al concreto riconoscimento dei diritti della donna che, in questo ambito, sono ancora non pienamente posti in essere”.
Uno spiraglio però comincia a vedersi nel percorso formativo.
“Certo. Dal 1 Gennaio 2021 non è più possibile diventare Educatore Professionale senza Laurea e diventa requisito obbligatorio conseguire la Laurea Triennale in Scienze dell’educazione e della formazione.
Nello stesso tempo, si è operata una sorta di sanatoria nei confronti di tutti coloro che finora hanno svolto tale professione provenendo da percorsi di studio tra i più disparati. A coloro che si trovavano in tale condizione, si è chiesto di frequentare un corso universitario annuale per il conseguimento del titolo specifico di educatore e, quindi, di assistente alla autonomia e comunicazione”.
Intanto, pur operando nelle scuole, l’assistente alla autonomia e comunicazione non risulta ancora inserito nel personale della scuola gestito dal Ministero dell’ Istruzione, né tanto meno in una graduatoria apposita negli Uffici Scolastici Territoriali.
“Non ancora. Infatti, le istanze più recenti si esprimono in due direzioni:
– una che propone una sorta di internalizzazione che farebbe rientrare gli educatori e gli assistenti alla comunicazione nel circuito del personale della Regione;
– l’altra mira a richiedere che la figura degli assistenti diventi un ruolo professionale gestito direttamente dal Ministero dell’Istruzione. E a questo proposito è al vaglio del legislatore una proposta di legge promossa da FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità di cui l’ENS è membro) e FIRST (Federazione Italiana Rete Sostegno e Tutela), oltre che da tutte le grandi associazioni di categoria degli assistenti”.
Qual è la condizione del sordo oggi nella scuola e nella società, secondo la sua esperienza di assistente alla comunicazione per sordi?
“Complessa. Si pensa, generalmente, che i sordi vivano tutti la stessa condizione, ma non è così.
Oggi, essi si differenziano in base ad un elemento principalmente, ossia il ricorso alla lingua dei segni italiana: alcuni scelgono di utilizzarla altri no. Questi ultimi, spesso da adulti, ritornano ad utilizzarla, rendendosi conto dell’efficacia funzionale di questo strumento aumentativo per la propria produzione comunicativa.
Alcuni sordi hanno intrapreso il percorso consistente nel farsi impiantare una sorta di orecchio bionico, l’ impianto cocleare, spesso in tenera età, per scelta familiare.
Non sempre per tutti i sordi l’intervento porta agli stessi risultati.
È consigliabile farlo nei primi mesi di vita, prima della fase dell’apprendimento lunguistico, sotto i due anni di vita.
Se tutto procede positivamente e affiancando, a quel trattamento, anche esercizi logopedici, per il sordo diventa possibile sentire ed imparare l’uso della lingua italiana a livello di produzione scritta e orale, in questo caso viene detto sordo “oralista”.
Non tutti però condividono la strada dell’impiantologia. Alcuni non possono permettersela, per ragioni varie o per scelte personali.
Vi sono quindi altri sordi che crescono imparando ad usare direttamente la lingua dei segni, spesso sono figli essi stessi di genitori sordi, per cui la LIS è la loro lingua naturale e la utilizzano in ogni ambito. Questi sordi vengono detti ‘segnanti’.
A scuola, quindi, possono giungere bambini o ragazzi sordi che riescono a comunicare solo o prevalentemente con l’uso della lingua dei segni. In quel caso ecco che diviene fondamentale la presenza di un assistente alla comunicazione con specializzazione in LIS [Lingua dei Segni,ndr.] e in altre tecniche didattiche, adatte a questo tipo di disabilità sensoriale”.
Un episodio che le ha fatto capire quanto il discente sordo possa trarre beneficio dalla presenza dell’assistente all’autonomia e comunicazione.
“Ogni alunno ha la sua storia ed un origine familiare e personale diversa, valori diversi.
Ciascun assistente, dunque, ha il dovere di conoscere quella storia personale, prima di rapportarsi con il proprio discente e la sua famiglia.
Detto questo, ricordo in particolare un brillante ragazzo sordo, di tipo segnante che, pur essendo riuscito ad arrivare al liceo, tuttavia, incontrava difficoltà legate all’apprendimento per via della sua sordità, ma soprattutto aveva necessità di essere supportato da un assistente con un livello alto della lingua dei segni, altrimenti, nel suo caso in particolare, tutto diventava limite.
Io, specializzata nel terzo livello di lingua dei segni ed interprete professionale, una volta arrivata a scuola e cominciato a comunicare con lui in classe, lo vidi tirare un lungo sospiro.
L’arrivo di un assistente, tagliato sulle sue particolari esigenze, rappresentò evidentemente per lui come una boccata di ossigeno a livello psicologico.
Grazie alla possibilità di utilizzare la LIS in maniera fluida, sia in comprensione che in produzione, il ragazzo è riuscito a capire concetti astratti come quelli filosofici, religiosi, e in generale tutte le astrazioni tipiche delle varie discipline. Ed è così giunto a sostenere l’esame di Stato nel migliore dei modi, con un colloquio finale in lingua dei segni, dove la mia voce traduceva i suoi contenuti, le sue pause e anche i suoi silenzi”.
Un ottimo risultato.
“Non solo a livello scolastico. Spesso si crea un rapporto di fiducia che continua anche fuori, nella vita.
Dopo la licenza liceale, il ragazzo ha fatto con me il percorso per il conseguimento della patente attraverso la lingua dei segni. E questo lo ha portato finalmente a riscattarsi, a cominciare a vivere una vita di relazioni all’esterno della scuola.
Questo per dire quanto può aiutare il fatto di trovare la propria strada comunicativa ed avere qualcuno che supporti nel cammino di ricerca della propria dimensione comunicativa ideale”.
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