E poi la domenica tornava il suo amore, che d’estate viveva negli alpeggi

Stato Donna, 13 marzo 2022. Il pomeriggio si sedeva davanti al fienile, con la Settimana Enigmistica e la caffettiera su un vassoietto rosso di legno, con le stelle alpine disegnate, come la base nella quale si poggiava la tazzina, bianca, di porcellana sottile. La panchina, invece, ogni anno la trovavamo diversa. Una volta rossa una volta verde una gialla. Di legno e grande. La sistemava il Comune, perché il fienile era proprio lì, di fronte alla chiesetta, dove i turisti sostavano facendo tappa tra il paese, e quella Malga che era nata come una stalla e poi era diventata famosa, e oggi è di uno chef stellato che lì è stato bambino e ci è rimasto, regalandole lustro e molti visitatori.

E i turisti il pomeriggio se la dovevano dividere con lei quella panchina perché, dopo aver rigovernato casa, si riposava e chiacchierava con chi si fermava a chiedere informazioni, a fare foto al fienile tutto pieno di gerani rossi e bianchi, alla chiesetta con il suo campanile rotondeggiante, al panorama, che sembrava una cartolina, con il paese adagiato giù in basso, e il sentiero che saliva dal cimitero e attraversava i prati che d’inverno erano una piccola pista da sci, anzi due, ciascuna con il proprio skilift e una buca al centro della pista piccola, dove il pomeriggio andavamo a giocare con gli slittini, incoscienti e coraggiosi, che prendevi una velocità pazzesca e arrivavi dall’altra parte come un proiettile e la prima volta non te l’aspettavi mica. Almeno io, che venivo dalla città e imparavo sul campo quelle cose ma non avevo paura della velocità, perché ancora non mi aveva ferita.

E per tornare a casa passavamo davanti al suo fienile, profumato d’estate, con il portone grande grande, di legno, che si apriva tutto per far entrare il carro tirato dalla Bisa, la cavalla bianca che quando abbiamo saputo che era morta noi bambini abbiamo pianto disperati, pensando a quante volte ci aveva dato un passaggio raccattandoci per strada, o quando andavamo tutti a fare il fieno, anche chi, come me, era un po’ allergico e prima di farmi uscire mio padre mi lanciava una compressina di Bentelan in gola e poi via, a giocare, e a saltare nel fieno, personale spa ante litteram e prima che diventasse così chic.

Che anche aver incontrato una vipera davanti al fienile era solo un’avventura di cui andare fieri io, mio fratello e i miei cugini, scampati al pericolo e, forse, alla morte. E lei non era lì, sulla sua panchina, perché faceva freddo, ma era alla finestra seduta sul davanzale interno, a bere il the con molto zucchero e molto limone. E bollente. Che teneva la tazza con due mani
e lentamente soffiava per raffreddarlo. E ci salutava con la mano e poi apriva la finestra e ci chiedeva se ci eravamo divertiti. E anche d’inverno aveva sul vestito un grembiule rosso o blu, con i fiorellini e un fazzoletto in testa. Solo la domenica si cambiava. Si metteva il vestito tipico della sua terra. Così fiera, e alta. Con i fiorellini piccoli e la camicia candida come il grembiulino sulla gonna lunga. E la testa libera, con i capelli raccolti ma morbidi. Non so se fosse bella, ma lo sembrava.

Andava in chiesa, giù in paese, e poi la domenica tornava il suo amore. Che d’estate viveva negli alpeggi, ma la domenica scendeva a trovarla. E anche lui si vestiva con l’abito tradizionale, con i pantaloni alla zuava, la camicia con la pettorina e il cappello con la piuma. E si sedevano vicini, senza parlare, e il primo contatto era al segno della pace, e ogni volta riannodavano quel filo che non si è mai spezzato. E poi andavano al ristorante, dove avevano sempre lo stesso tavolo riservato, perché quel giorno era per loro, senza fatiche o preoccupazioni o discussioni.

Del resto parlavano la sera, quando si sentivano al telefono. I primi anni, quando ancora non aveva il telefono a casa lei scendeva alla cabina rossa, di sotto e lo chiamava dov’era, con i gettoni prima e con la scheda poi. Che la comprava la mattina quando andava a ritirare il giornale per i suoi fratelli, dopo essere andata al panificio a prendere i panini caldi e poi al Bar Bianco, a bere il caffè con la panna. E poi tornava a casa, dove viveva con i fratelli che la adoravano, loro tre e poi gli altri due, nelle case di fronte. Non era tutto semplice. Il
lavoro era duro, e la solitudine brutta.

Da ottobre a Natale, e poi da marzo a giugno erano soli e qualcuno si faceva consolare dall’alcool. E lei controllava, e correva a recuperarli e se ne prendeva cura e lo ha fatto per tutta la vita. Da quando erano ragazzini e lei li accudiva e poi andava a lavorare con loro e li badava, attenta. E non era mai arrivato il momento giusto per andar via. Da ragazzi avevano lavorato tutti insieme, anche con il suo fidanzato. Poi c’erano state delle discussioni e le strade si erano separate, ma per loro no.

Loro, che forse non si sono mai dichiarati l’amore, ma mai hanno guardato un altro. Un’altra. Loro, che non hanno mai vissuto insieme, ma avevano un nido bello e profumato, solo per loro, la domenica, fino al mattino dopo. Quando lui immancabilmente partiva e lei tornava su, di fronte alla chiesetta, nella casa di legno, con i suoi fratelli e le cognate, e i nipoti, e i gatti e la panchina.

Loro, che d’inverno lui scendeva a vivere a fondo valle, perché portava gli animali in stalle belle e moderne e faceva un formaggio buonissimo, dal nome strano, che la gente incauta ne comprava un pezzo da portare a casa, e anche se te lo mettevano sottovuoto, all’entrata in autostrada già la macchina era impestata e l’unica cosa possibile, mangiarlo. Con i panini ancora caldi comprati al forno di fianco al bar, croccanti e bianchi, che ci sentivamo molto Heidi. Loro, che la domenica l’hanno sempre santificata con il loro amore, che anche se non lo chiami amore, quello è e lo sapevamo tutti. E il loro tempo non è mai arrivato perché, alla fine, è sempre stato il loro tempo.

Simonetta Molinaro, 13 marzo 2022

 

 

Simonetta Molinaro

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