L’8 marzo è tante cose, questo lo dedichiamo alle donne e alle madri in guerra

Stato Donna, 7 marzo 2022. Cosa scriveremo per questo 8 marzo? Racconteremo perché esiste questa giornata? Racconteremo di Marie Curie, della sua caparbietà, dei suoi due Premi Nobel? Racconteremo di Chiara Ferragni e della sua capacità imprenditoriale? Racconteremo di Samantha Cristoforetti e dei suoi capelli che galleggiavano con lei nello spazio? Racconteremo di tutte le donne partite dal nulla e diventate famose, le cui vite impazzano sui social, postate appositamente per avere migliaia di like? Probabile.

Perché è sempre bello e motivante leggere le storie di chi vive esistenze speciali, soprattutto se nulla è stato regalato, ma è frutto di talento, tenacia, impegno. Di una manciatina di fortuna, che non guasta mai e non toglie nulla al merito, magari nel conoscere la persona giusta al momento giusto, di studiare con un professore illuminato che non ha temuto di essere offuscato dall’intelligenza di un’allieva che quel maestro lo ha superato, poi.

Oppure potremmo parlare ancora della pandemia e delle ricadute sulle donne, ricadute durissime perché sono in 312000 ad aver perso il lavoro e sono il doppio degli uomini. O di quante sono le donne ad aver subito in questi due anni violenza domestica, violenza esacerbata dalla continua e logorante convivenza del lockdown e poi dalla esasperante situazione che abbiamo tutti vissuto?

E non vogliamo dire neanche una parola delle donne alle quali viene per tradizione e cultura demandata la cura della famiglia e della casa, costrette a dover sacrificare ore o giorni di lavoro per seguire i figli (che non è mai un sacrificio, sia chiaro)? A dover rinunciare al tempo libero o a ore di sonno per far tutto quello che ci si aspetta facciano? E delle ragazze uccise perché rifiutano matrimoni combinati? O perché troppo occidentali? E le mutilazioni genitali? E le spose bambine? Potremmo discuterne, certo. Ma soprattutto, mi chiedo, ha senso oggi parlare dell’8 marzo?

Oggi in senso lato, nel 2022, con tutte le conquiste che le donne hanno fatto. Con tutte le conquiste che gli uomini dicono che le donne abbiano fatto. Con tutti i traguardi che le donne hanno raggiunto e con tutti quelli che si illudono di avere raggiunto. Oggi, che quando una donna diventa rettrice di un’università stiamo tutti a sciabolare i Crystal, che è giustissimo per carità, ma dovremmo pensare proprio in quel momento anche a quante non si candidano neanche, e non sempre perché non ne hanno voglia, come certa narrazione si picca di raccontare.

Narrazione che contiene una parte di verità, attenzione. Le donne fanno più fatica a farsi avanti, per diversi ordini di motivi. Spesso perché devono conciliare lavoro e famiglia e, anche se hai molti soldi e molte baby sitter, i sensi di colpa sono democratici e ti azzannano impietosi e impetuosi. Figuriamoci se vivi un disagio economico, poi.

Oppure immaginiamo di dover fare i turni, di essere separata e di avere la famiglia lontana. La carriera può attendere, baby. Oppure non ci si fa avanti perché, seppure bravissime e meritevoli, non si hanno le conoscenze giuste, o perché ci si trova a gravitare in orbite sbagliate. O qualcuno ti mette semplicemente i bastoni fra le ruote, magari un marito o un collega. Succede.

Qualcosa è cambiata, ovvio. Dobbiamo riconoscerlo. E lo riconosco, certo, ma con un po’ di amarezza. E ogni volta, lo dicevo prima, mi colpisce la festa che facciamo quando una donna conquista un posto o un luogo di potere. Siamo lontani da quando a un successo femminile seguivano occhiate ironiche e battutine su certe frequentazioni maschili, loro sì di potere. Siamo lontani?

E quella frase orribile “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”, che poi qualcuno ha pensato di rabbonire le femministe e si è inventato “a fianco di un grande uomo c’è sempre una grande donna”. Il contentino. Un po’ come l’8 marzo. Che un po’ ce lo siamo dimenticato il motivo per cui si ricorda, e non “festeggia”, perché da festeggiare non c’è nulla. Pochissimo, poco. Un breve e poco consolatorio climax ascendente.

Marie Curie

Perché siamo qui, a scannarci su “dottore” e ” dottoressa”, dividendo femminili e maschili, inserendo schwa e asterischi, e poi sulle quote rosa e le giuste rivendicazioni di chi vuole essere valutata solo per i propri meriti. Piacerebbe anche a me. Mi brucia tanto quando mi accorgo che la mia intelligenza dà fastidio. Quando la mia competenza viene quasi dileggiata. Quando per essere ascoltata devo fare la uoma. Mi avvilisce leggere “donna con le palle”, come se per essere una donna devi essere un uomo. E quando mestamente, per non fare polemica, suggerisci “Potremmo sostituire questa frase con -vera donna-”  ti guardano con compassione e tu leggi nei loro sguardi la noia “Ecco, un’altra femminista”.

Perché se affronti certi temi sei femminista, diciamo la verità. La mostra del pregiudizio è permanente, non chiude mai, come quando parlano dei filtri antiparticolato e ti guardano con sufficienza se mostri di sapere cosa sia, per non parlare del fuorigioco, che ti puoi esporre solo se sei Paola Ferrari.

E, dicevamo, siamo qui a litigare sulle quote rosa e su certe donne che si sentono panda, se ne usufruiscono. Panda, nientedimeno. Personalmente, sfegatata sostenitrice delle competenze e della meritocrazia, sono però anche concreta e con l’età sono arrivata a considerare le quote rosa un male necessario per poter iniziare a cambiare la situazione attuale che ha un gender gap troppo importante.

Le giudico un ponte tra noi e il futuro e, se permetteranno alle mie nipoti di vivere in un mondo dove la meritocrazia conti davvero e non abbia sesso, lo faccio volentieri il sacrificio. Spero che queste misure riescano a generare circoli virtuosi nei consigli di amministrazione, in politica, nel mondo del lavoro e del potere in generale.

E poi oggi in senso letterale, 8 marzo 2022, ha senso l’otto marzo? Con l’ “operazione militare speciale” in atto, che non si può scrivere la parola vera, ma tutti lo sappiamo che cosa sta succedendo. E tutti vediamo quelle donne che arrivano disperate con i loro bambini che portano in mano pupazzi ormai lerci dopo giorni di viaggio, e sulle spalle hanno zainetti pieni di biancheria e di quel poco che hanno vissuto per età. I pastelli, un album da colorare, una fotografia del papà che li ha accompagnati alla stazione, li ha abbracciati, e poi si sono salutati piangendo, con le mani divise dal vetro del finestrino, quella grande che conteneva quella piccola, ma non la poteva toccare.

E queste donne che partono da sole diventano più forti ancora. Come le mamme del reparto maternità dell’ospedale di Odessa, chiuse nel bunker in vestaglia e con i loro bambini appena nati e le dottoresse che si aggirano per vigilare e ogni tanto, senza farsi vedere, si appoggiano alla parete e piangono in silenzio. Come quella mamma, stesa accanto al suo bambino, coperti entrambi da qualcuno pietoso, con la valigia ancora in piedi, piena del loro mondo che non c’è più, ma tanto non ci sono neanche loro.  Come Nadia, che ha due figli maschi tra i 18 e i 60 anni, abili ed arruolabili e poi uno è militare anche in tempo di pace, figuriamoci ora.

Sono partiti, e lei non sa dove sono e glielo hanno comunicato su Whatsapp i suoi ragazzi, senza parole, ma inviandole solo la bandiera dell’Ucraina e un cuore. E come le mamme dei militari russi caduti, cremati in volo, che non avranno mai nemmeno un posto dove piangere i propri figli morti in una situazione di cui non conoscono le ragioni. Che poi non c’è mai una ragione. Dedichiamo a queste donne l’otto marzo che, pur storicamente ammantato di un senso nuovo, più moderno e proiettato verso il futuro, oggi è pregno di un dolore antico che sa di lacrime ma anche di forza primordiale infinita e, come sempre, generatrice.

Simonetta Molinaro, 7 marzo 2022

 

 

 

 

Simonetta Molinaro

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