Anche solo nominare la parola “cancro” è difficile, scivolare è un attimo

Stato Donna, 6 marzo 2022. “Abito un corpo che non è mio. Ci vivo dentro, ma lo osservo da fuori, contando i capelli rimasti e le costole dall’alto verso il basso.” Me lo dici con uno sguardo di sfida, come se io potessi mai contraddirti, anzi come se mi chiedessi di farlo, ma non lo farei mai. Siamo seduti su questa panchina, davanti a questa valle che profuma di nebbia e di foglie rosse cadute nella terra, e sotto a questo monte tutto pieno di reti a mantenere massi che cadono sui sentieri stretti.

Ma noi siamo saliti lo stesso, incoscienti e insieme prudenti, e guardiamo in giù, senza parlare. Giochiamo a contare qualunque cosa e il primo che la vede vince, e quindi vinciamo sempre entrambi. Gli dico a voce bassa che i capelli gli cadono perché è ottobre, e ride. “Scema”, mi dice. E rido anche io e sostengo il suo sguardo e mi costa fatica perché lui è dignitoso e inoltre parla con un’ironia che mi imbarazzava, le prime volte. Perché nominare la malattia, il dolore, la sofferenza, le lacrime, è molto difficile. Scivolare è un attimo. Nel pietismo, nella retorica, nella banalità delle parole inutili, nella saccenza che annoia, nella curiosità che può ferire. E si sceglie il silenzio, spesso. Che non è disinteresse, ma rispetto e delicatezza.

Se ne parla se l’altro ne vuole parlare e si cerca di leggere tra le pieghe delle cose non dette, del dolore raccontato, della disperazione infinita che accompagna i giorni precedenti alla terapia, per paura che i valori dicano “No, ti devi fermare un attimo” e allora si ha la sensazione di perder e tempo prezioso e come si può quando senti di non averne più di tempo? E non ti abitui, mi hai confidato una volta, perché poi il tuo corpo dimentica e cerca segnali di guarigione, ma anche questa è una parola che non si pronuncia mai.

foto: ahoga.it

Per scaramanzia, forse. O perché si ha paura di alimentare speranze, ma come si fa a non augurare la speranza? Mi nascondo dietro lo scudo protettivo della professione e cambio argomento. “Comunque, ti ho ordinato un integratore nuovo per i capelli” “Mele Annurche?” Mi chiede ormai esperto e io sorrido perché la prima volta che glielo avevo proposto mi aveva detto che parlavo come Tonio Cartonio e ancora ridiamo. Ma non sottovalutiamo l’importanza di preservare la sua immagine, perché non è che solo le donne piangono per i capelli che trovano a ciocche sul cuscino dopo la chemio. Mio padre si toccava la nuca e mi chiedeva “Ricresceranno Simonetta, che dici apapà?” Tutto attaccato. Apapà.

E me lo domandava sottovoce anche lui quando gli avevo consigliato “Rasati a zero prima che cadano. Cresceranno meglio e nella direzione giusta” ripetevo la lezioncina imparata a un corso che avevo seguito e mi sentivo inadeguata e le parole suonavano troppo giuste. Meglio l’ironia che usa quando si affaccia alla porta della farmacia e con le dita mima il cinque, o il sei, o l’otto, che sono i flaconi di cortisone che deve assumere prima del nuovo ciclo di chemio. “Lo bevo tutto d’un fiato e poi me lo lancio alle spalle come fanno i Russi con il bicchierino di vodka”. E la prima volta ci avevo anche creduto, per un istante.

Eravamo seduti sempre sulla stessa panchina ma non c’era la nebbia e quel monte che ogni tanto ne cade un pezzettino era silenzioso, come lui che faceva i conti con una recidiva e mi confessava la sua personale strategia contro la paura. Far finta che non esista e mai nominarla altrimenti diventa reale. Progettare, organizzare quando ne hai la forza fisica. Comprare cose nuove, oggetti per la casa e usarli, non conservare. Comprare pigiami che non sembrino pigiami. All’inizio quando si doveva ricoverare andava in ospedale con i pigiami di cotone, aperti davanti come delle camicie e con i pantaloni larghi che di notte si alzavano e si arrotolavano intorno alle gambe ed era difficile girarsi, soprattutto con quelle coperte pesanti che gli mettevano addosso quando tremava per il freddo. E per la paura, immaginavo io.

​E poi, anche quando stava meglio e si alzava e camminava per il corridoio, sbirciando nelle camere degli altri per solidarietà e comunanza, si sentiva a disagio. Si sedeva nel salottino dove i parenti aspettavano di poter entrare e gli sembrava che tutti lo guardassero impietositi, nella migliore delle ipotesi. Sfuggivano lo sguardo, i più. E allora si era comprato dei pigiami che sembrano tute, uno blu scuro e uno nero, senza scritte e con l’elastico in fondo così di notte non si spostavano, usava delle Superga come pantofole e nel salottino si confondeva con i visitatori, non sembrava un paziente e non si sentiva malato ed era contento così. Tornava in camera quando erano andati via tutti e mentirsi lo aiutava a sentirsi sano.

Era passato dalla farmacia il giorno prima. “Domani andiamo a fare un picnic. Preparo tutto io, non ti preoccupare. Ma non lo dire a Greta.” “Chi sarà mai Greta?” Mi chiedevo parlando da sola perché se ne era già andato. La sua fidanzata si chiama in un altro modo e poi non abbiamo nulla da nascondere, lo sanno tutti che siamo amici. Ho capito quando sono arrivata sulla panchina e ho trovato non solo i panini con la frittata, come alle gite scolastiche di quando eravamo bambini e qualcuno aveva portato anche le cotolette, idee pratiche di mamme previdenti che quei panini dovevano durare fino a sera senza andare a male, e facevamo le facce schifate, ma solo perché ci vergognavamo e in realtà ci beavamo in un invidioso silenzio del profumo che invadeva il pullman.

Ho trovato anche un vino bianco, siciliano, profumato. E due calici di plastica, e ho capito chi era Greta. “Domani vado in ospedale, un po’ di terapia ci sta ogni tanto, dai””Ti accompagno?” “Non se ne parla”. Discussione non chiusa, mai aperta proprio. La strategia. Fare cose e farle da solo, lo so. Vorrà dire che sarò qui quando tornerai.

Simonetta Molinaro, 6 marzo 2022.

 

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