L’estate con quei ragazzi che giocano ai gangster, di peso per la famiglia

StatoDonna, 27 febbraio 2022. Me lo aveva presentato Archimede. “Eccola”, aveva detto quando ero arrivata. “Mi aspettavate?”. Avevo chiesto perché non mi ricordavo assolutamente di quell’appuntamento, e già mi preoccupavo e iniziavo dentro di me ad enumerare i Presidenti della Repubblica, in ordine cronologico ma a ritroso, sempre più difficile, e per far questo mi ero persa il suo nome di battesimo.

Me lo feci ripetere, e capii subito chi fosse. La sua fama lo precedeva, perché faceva cose grandi per i ragazzi perduti, in quella terra dove l’ospitalità è un vanto ma anche la generosità, e c’è sempre un piatto in più da mettere a tavola, anche con niente. Due frise, un pezzo di formaggio, un bicchiere di vino. Come quelle cose che Archimede aveva preparato per me, uno spuntino veloce prima di andare a lavorare, Francesco affidato a Caterina e io potevo partire, con un caftano di lino bianco che avrei usato come camice, come sempre in estate.

E mi è rimasta questa cosa, anche se vivo in montagna, adesso. Non uso camici d’ordinanza. Ho camicie bianche inamidate, comprate a Bolzano da usare nelle occasioni ufficiali e caftani che ho portato via da certi negozietti di Positano, quelli che trovi mentre fai pausa salendo dal mare, con un po’ di affanno per il caldo. Entri per la frescura e per prendere fiato e scopri un mondo di coralli e stelle marine e conchiglie. E poi, il lino bianco. Meraviglioso. Da usare senza parsimonia.

“Mangi pure, dottoressa” mi disse. E io, che mai al mondo avrei mangiato davanti ad uno sconosciuto con le mani la mia frisa piatta, con i pomodorini gialli scelti uno ad uno, che me lo immaginavo Archimede mentre me la preparava, allungai il piatto verso di lui. “Solo se mi fa compagnia, dottore” e così ci dividemmo il mio pranzo e mentre si materializzavano olive e pomodori secchi sott’olio e taralli e un altro calice per lui, io ascoltavo e capivo il perché di quella presentazione e di questo pasto informale, che crea legami nel tempo necessario per finire una bottiglia di vino bianco fresco.

Accettai di andare a sistemare l’armadio farmaceutico di quella casa famiglia, in un posto bellissimo, arroccato un po’ in alto, con il suo castello e le sue strade sdrucciole e sdrucciolevoli, dove le vecchiette si sedevano fuori dalla porta e mettevano le sedie ad occupare il parcheggio per i figli che tornavano dal lavoro e intanto chiacchieravano e lavoravano all’uncinetto presine brutte, fatte con cotoni avanzati, rigide e troppo piccole, ma che aiutavano a mantenere la mobilità delle dita, gli occhi attivi e la mente in allenamento, per contare le catenelle. Ce ne ho una collezione.

Me le regalavano loro, quando poi avevano capito che non volevo parcheggiare nei posti che custodivano gelosamente e quando mi vedevano arrivare, con le braccia cariche di libri, giornalini, torte, sacchetti di caramelle e cioccolatini, mi dicevano -Statti attenta, dottore’- e mi facevano tenerezza, ma anche un po’ rabbia, perché lì dentro, oltre quel cancello sempre un po’ socchiuso, di pericoloso non c’era nessuno e niente, se non la paura che questi ragazzi avevano di essere dimenticati e abbandonati.

“Che ci hai portato dottore’?” mi avevano chiesto la prima volta spavaldi, abituati alla legge delle cose, del possedere, dell’avere. Figli di una povertà assassina ed estrema, che cerca il riscatto ma certe volte attraverso strade più facili. E giocano ai gangster, ripetendo frasi respirate ed assorbite da piccoli, quando i padri dormivano vestiti pronti a scappare e le madri erano sempre incinte di qualche fratello che poi si erano ritrovati anche lì, e magari non lo avevano mai conosciuto prima, occupati a correre per le stradine da controllare ed avvisare che non arrivasse nessuno.

“Me, ho portato. Che, non basta?” avevo risposto, mettendo in chiaro che non barattavo nulla e non cedevo a ricatti. Ma lo avevo detto con un sorriso e avevano capito subito, senza ramanzine e pistolotti che non so neanche fare e non servono a niente, soprattutto con dei ragazzi adolescenti e rinchiusi. Che comprendono molto bene quello che hanno fatto, ma che poi ti diranno di non avere avuto alternative o quantomeno di non averne mai conosciute. Che nessuno glielo ha mai prospettato che potessero essere diverse, le loro vite bambine solo per età.

E la cioccolata, che poi naturalmente portavo con me, era l’unica cosa dolce che attraversava certe giornate, quando le lacrime erano troppe e troppo salate o amare, come quando di domenica aspettavano con vestiti puliti ma troppo grandi o troppo piccoli, portati da volontari affettuosi ma con figli di età differenti, che qualcuno li andasse a prendere, da casa. E stavano in piedi nel cortile già dalle otto della mattina, senza giocare per paura di sporcarsi e con i capelli lavati e ancora umidi. A fumare nervosi. E se non arrivava nessuno, erano tragedie. E allora bisognava correre e consolare senza pietismi. Aiutare a ridirezionare rabbie e accogliere disperazioni silenziose ma, per questo, più difficili da gestire.

Il dottore, che forse non per caso si chiamava come il Santo dei poveri, faceva finta di chiamare a casa di chi sarebbe dovuto andar via. Faceva finta perché era già arrivata la notizia che il padre era di nuovo stato arrestato e la madre non aveva il mezzo per arrivare da noi. Faceva finta perché troppo spesso se ne erano dimenticati e basta. O non avevano voglia, considerando quei figli solo un peso. Imbranati che si erano fatti prendere troppo presto. Faceva finta e diceva che non rispondeva nessuno oppure che avevano la febbre e non potevano venire.

E poi prendeva il pulmino, li caricava e li portava al mare, dove i gelati consolavano anime a pezzi che stringevano immaginette di santi che dovrebbero proteggere, regalate da nonne silenziose che non vedevano da tempo infinito, forse le uniche ad aver mostrato loro un barlume di tenerezza. Il tempo. Dilatato e compresso, un giorno c’è e un giorno no, come il vento che porta via il dolore, ma solo per poco. Il tempo che non vedono l’ora che passi per uscire da qui, ma poi “Cosa faccio ora? Dove vado?”. Perché poi sei grande e qua non ci puoi stare più e devi tornare dove non ti vuole nessuno, dove ti considerano uno scemo o un traditore, dove ti dovrai procurare il cibo e forse sarai un peso..
Recuperarli tutti, impossibile. Anche dimenticarli, però.

Simonetta Molinaro, 27 febbraio 2022

Simonetta Molinaro

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