Una mattina la madre abbracciò Jonathan e andò via per sempre
Stato Donna, 20 febbraio 2022. Ero lì per un breve periodo, una sostituzione per maternità, in tutto nove mesi. Lo avevo trovato per caso, quel lavoro. Ad agosto ero tornata tre giorni in quel posto bellissimo dove per qualche anno, quando andavo al liceo, eravamo andati al mare genitori, fratello, zii, cugini, gatti e cani. Un mare trasparente e a tratti gelido quando arrivavano le correnti di una sorgente che non mi ricordo, dove la spiaggia erano delle microconchigliette ed era bellissimo perché non provavi mai la sensazione fastidiosa della sabbia appiccicaticcia. Sulla spiaggia ci potevi arrivare con la bicicletta o a piedi, perché nel villaggio c’era sì un pullmino, ma si fermava alla sbarra. E poi arrivavi al bar, che ti sembrava un miraggio dopo quella camminata sotto al sole e anche il caffè, oggettivamente imbevibile, sembrava buono.
E invece sulla spiaggia la cosa che mi colpiva ogni giorno era che, di fronte, sembrava uscisse un monte dall’acqua, lo stesso dove poi d’inverno arrivava la neve e avevo sempre pensato quanto mi sarebbe piaciuto vedere l’effetto. E ci ero tornata perché avevo bisogno di riflettere e in un impeto di nostalgia avevo fatto il giro dei luoghi e poi dei ristoranti, don Ciccio il migliore, che poi mi ero ricordata che un anno non lo avevamo trovato e mio padre aveva chiesto al figlio dove fosse e lui, sorridendo, aveva detto che era in vacanza.
E io non avevo capito e mi avevano dovuto spiegare che tipo di vacanza fosse. E poi ero passata dalla farmacia, in paese, per comprare una cosa e la chiacchierata con la collega diventò un colloquio di lavoro, ma senza che me ne accorgessi, e dopo un mese prendevo servizio. La dottoressa mi aveva trovato questa casetta deliziosa, con un terrazzo pieno di gelsomini e bougainville e con un tetto di glicini che, seppure nella seconda fioritura, erano copiosi e profumati e praticamente si viveva di fuori. Colazione, pranzo, cena, tempo libero…tutto.
E dal terrazzo gemello lo sentivo parlare con il figlioletto. Gli raccontava mentre innaffiava i fiori o stirava quello che aveva fatto durante la giornata, con una voce tranquilla, come se fosse grande e invece aveva solo cinque anni e la stessa voce del padre, la stessa inflessione e lo stesso tono. Il piccolo, per parte sua, gli diceva della maestra Pina che certe volte se lo portava a casa dopo la scuola e gli preparava da mangiare le cotolette e le patatine fritte, e rimaneva da lei fino a quando il padre, poliziotto, finiva il turno. E la notte uguale, se era di
servizio, lo lasciava da Pina che aveva anche due figli e così non era mai solo.
Li sentivo, dal terrazzo, mentre progettavano la gita della domenica successiva e discutevano della lista della spesa, ed era tenero ascoltare, ma c’era una nota stonata che poi mi raccontò quando facemmo amicizia. Cosa che successe quando i figli di Pina presero la varicella. Insomma, dal terrazzo mi offrii di tenerlo io, Jonathan. E mi sembrava brutto così, come di intrufolarmi, ma Alberto era davvero disperato e, affacciandomi oltre le bouganville, lo chiamai. Accettò al volo e mi portò il figlioletto che era evidentemente abituato ad aggiustarsi in corsa.
La mattina dopo era domenica e portò i cornetti per la colazione e mentre bevevamo il caffè mi raccontò di quando la mamma di Jonathan era andata via, quasi senza spiegare niente. La nostalgia, la noia, le responsabilità, aveva messo in fila parole che non poggiavano su un pensiero logico, ma erano più che altro scuse, lo aveva capito. E, dopo un comprensibile momento di sconforto, lo aveva accettato e si era organizzato, prendendosi cura del bambino che era piccolo e non capiva perché la sua mamma una mattina avesse preparato uno zaino e fosse andata via, salutandolo con un abbraccio, che a tre anni non capisci e non puoi neanche immaginare che la rivedrai dopo un anno, la prima volta. Perché era tornata nel suo Paese e non telefonava nemmeno.
E mi aveva raccontato delle lacrime di Jonathan che poi gli veniva in mente che lei aveva tanto insistito per chiamarlo così e a lui sembrava una cosa fuori contesto, e adesso gli faceva rabbia aver ceduto, con quel cognome tanto italiano da essere ai primi posti per diffusione e tanto meridionale, poi. Lacrime che lui aveva solo asciugato, senza cercare di impedirle, perché gli sembrava che con le lacrime potesse scorrere via anche un po’ di dolore. E così era stato, anche se parlarne era tanto difficile. Fino a quando un giorno il piccolo gli aveva chiesto perché la mamma avesse deciso di andar via. Fornendogli la risposta.
“Deciso” era il verbo. Perché dare la colpa al destino è pericoloso a cinque anni. Ti fa crescere demotivato e sfiduciato, convinto di non avere un ruolo nella tua vita e invece riuscì a dirgli che non è sempre facile comprendere il proprio posto nel mondo e che, a volte, il nostro posto non è dove vorremmo che fosse o dove sarebbe giusto che fosse. Ma qualunque cosa siamo chiamati a fare, e magari lo scopriremo strada facendo, lo dobbiamo fare con passione e responsabilità. Che sono concatenate e si sorreggono in questa sorta di ossimoro dei sentimenti, che poi i sentimenti veri non conoscono antinomie. Ma certe volte è fatica comprendere, anche se i poeti lo declamano da sempre.
E lo ha cresciuto così, capace di perdonare una mamma ancora troppo figlia per essere madre, scappata di casa con un fardello pesante e che, a distanza di trenta anni ora che sta per diventare nonna, forse è pronta ma ha perso tutta la bellezza di tante fioriture dei gelsomini e dei glicini che loro hanno curato con amore e tutto il profumo che avrebbe potuto respirare con il suo bambino.
Simonetta Molinaro, 20 febbraio 2022