Stato Donna, 17 febbraio 2022. È diventato un caso nazionale la frase con cui una docente ha rimproverato l’alunna di un liceo scientifico di Roma, facendole notare che il suo abbigliamento era più adatto a quello di una prostituta sulla Salaria che non ad una studentessa a scuola.
Tutto il liceo si è ribellato e la protesta al momento non pare sedarsi, nonostante tentativi di colloquio fra l’alunna, la docente incriminata, la preside e i rappresentanti d’istituto. Inoltre ne parlano a profusione i giornali e le tv. La protesta prevede anche che nei prossimi giorni si indosseranno pantaloncini e abiti in qualche modo succinti, proprio come risposta a quanto detto.
I ragazzi, si sa, hanno la protesta facile. È un modo per far sentire la loro voce quando ne capita l’occasione, in una società che non è che li sta tanto a sentire. La loro età, lo slancio della loro personalità in formazione, l’entusiasmo di sentirsi grandi accendono il fuoco. Nella scuola poi momenti così sono sempre bene accetti, perché vanno anche ad unirsi al desiderio di qualche ora di lezione da perdere con una buona motivazione, non potendo essere palesate motivazioni meno nobili come la fuga da compiti e verifiche. Per i ragazzi funziona così e va così da sempre.
Quello che non va, decisamente non va, è la frase della professoressa. Un rimprovero con un accostamento negativo sul comportamento delle ragazze è quanto di più lontano dovrebbe essere dalla scuola. E certo ad un maschietto vestito in modo inappropriato non sarebbe arrivato un rimprovero così greve nel significato.
Da parte di una insegnante donna è poi la riprova che noi donne siamo spesse portatrici sane di quei virus che inquinano le nostre vite, appunto, di donne, sempre in salita nella considerazione del mondo e dei diritti.
Ma soprattutto un insegnante maschio o femmina ha il dovere di controllare il proprio linguaggio. Non puoi parlare a scuola come parleresti a tavola, a casa tua, con i tuoi parenti e amici. Non si tratta di mentire o di ipocrisia; si tratta di tenere ben chiaro il contesto e come il vestito richiede il contesto adeguato – proprio come si voleva fare intendere all’alunna -, così anche il linguaggio si deve misurare su di esso, tenendo presenti il luogo, la situazione generale, il tipo di comunicazione più adeguata ai ruoli e allo scopo che ci si prefigge.
Anche la persona più garbata può dire una parolaccia. Ma non a scuola. Né in chiesa né quando parli col preside e così via. Ma c’è anche un’altra questione da sottolineare. Il linguaggio è la voce del pensiero che è per sua natura silenzioso. Un docente non solo dovrebbe controllare l’emissione delle parole e delle frasi ma dovrebbe stare attento anche ai “pensieri che pensa”.
A cosa serve la cultura? A cosa serve studiare e leggere i libri? Che è il lavoro dei docenti. La risposta è facile e difficile allo stesso tempo. Serve a guardare con altri occhi la realtà. Ma tantissimi non lo fanno.
Chi ha studiato non per l’interrogazione da studenti né per l’esame all’università ma per la formazione di una persona consapevole di Sé e del mondo, non può ignorare quello che la cultura ci dice da sempre: che alle prostitute, che ad ognuno, si deve rispetto. Ce lo dice il Maestro Verdi nella sua Traviata, il cui libretto è ripreso da un testo letterario. Ce lo dice la letteratura di tutti i tempi. Una delle figure più belle che si incontrano al quinto anno del liceo classico è il personaggio di Abrotono, in un testo teatrale di Menandro, commediografo greco.
Questa fanciulla vive una storia con il marito di un’altra, e ne riceve denaro; un marito al momento in lite con la moglie. Ha tutto da guadagnare da questa crisi matrimoniale. Eppure, quando ha la possibilità di dimostrare che la coppia ha avuto un bambino (per un breve periodo abbandonato) e che la moglie è una donna fedele, contrariamente ai sospetti del giovane marito, la dolce Abrotono restituisce, dopo tanti malintesi e tante sofferenze, verità alla coppia, rinunciando senza ripensamenti al suo personale tornaconto. La figura di questa etera, così si chiamava nell’antica Grecia chi vendeva il suo corpo, fu poi rivisitata dal grande commediografo Terenzio, e anche questo testo è fra i testi scolastici proposti dai programmi di latino al terzo anno del liceo anche scientifico.
Dunque la letteratura svolge quel ruolo di esercizio alla comprensione, all’empatia, alla entropatia, alla capacità di immaginare l’Altro, anche quell’Altro distante da me nei comportamenti, ma vicino a me come essere umano. Non so quanti spettatori ateniesi tornavano a casa pieni di rispetto per le etere dopo aver assistito alla rappresentazione scenica del testo di Menandro. Forse pochi o forse nessuno. Ma poiché non si vive in bolle autonome, si vive invece di respiro collettivo, quelle frasi non saranno state pronunciate invano nella storia spirituale di un gruppo e dei singoli in esso inseriti. Magari sono state terreno fertile a distanza di tempo.
Lo stesso si dovrebbe poter dire dei docenti. Dopo aver letto tante e tante testimonianze sull’essere vivente che chiamiamo Uomo, la cosa deve portare necessariamente ad un cambiamento di prospettiva. Non nella sospensione dei giudizi ma nell’accompagnare ogni giudizio con quella che i greci chiamavano philantropia, i latini humanitas e che noi traduciamo “umanità”.
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