Silvia: “Diventerò donna ma noi trans siamo esseri umani, non bestie”

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IMMAGINE IN ALLEGATO

Stato Donna.it, 14 febbraio 2022. Silvia, 50 anni, ortese. E un percorso di transizione dall’identità biologica maschile alla nuova identità di donna, per ritrovare se stessa. Ha raccontato a StatoDonna la sua storia, la sua realtà.

Un’esperienza, la sua, il cui obiettivo primario e fondamentale è ritrovare un benessere psicofisico e la serenità interiore soffocati in tanti anni passati a fare silenzio, a dare spazio alle convenzioni, per la pace di tutti. Un’esperienza da conoscere. Perché quando si conosce, si comprende, si rispetta e si accetta. E magari si impara ad aiutare. O almeno così si spera.

“Perché bisognerebbe aiutare i trans, non denigrarli. Che piaccia o no”, come è la stessa Silvia  ad affermare. Sono persone anche loro. Un’altra faccia della stessa medaglia. Non bestie. Non figli di un dio minore. “E non sono escort o prostituiti, tout court”. Come si è tesi a pensare, per pregiudizio radicato. Come non  è vero che i trans non possono trovare lavoro. Perché se si lavora bene, si viene comunque rispettati, sia dal datore di lavoro che da tutti gli altri” dice Silvia “Come nel mio caso” la sua sottolineatura “Ho un’attività con mia sorella nella quale non subisco discriminazioni. Certo, vi sono persone che discutono la mia scelta, ma per quello io penso che non devo dare alcuna spiegazione alle persone. Le uniche persone a cui avrei dato una spiegazione sono i miei genitori. Ma loro non ci sono più e quindi le spiegazioni le dò, al massimo, a me stessa”.

Ma partiamo dall’inizio, con Silvia. Come è cominciato tutto?

Già dall’età di 8 anni sapevo di essere gay. È una cosa che si scopre subito. Non è vero che si scopre in tarda età. Quando uno è gay, uno è gay. Tuttavia, non ho mai fatto scoprire la mia omosessualità ai miei genitori. In famiglia abbiamo avuto un sacco di problemi, di guai e, quindi, non volevo dare loro un’altra sofferenza. Perché il gay viene discriminato, tra bullismo a scuola e pregiudizi vari nella società. E io stessa mi sentivo un po’ male quando venivo giudicata”.

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Quando, allora, ha preso la decisione di avviare il cambiamento?

A 49 anni ho cominciato il mio percorso di transizione. Da un anno faccio le cure ormonali per diventare donna. E sto affrontando tutti gli interventi possibili. Ma sto aspettando anche l’autorizzazione del giudice. E, a questo proposito, direi che in Italia siamo messi male: la burocrazia è lunga e farraginosa.

Il percorso di transizione, comunemente detto “cambio di sesso” e tecnicamente detto “percorso di riassegnazione chirurgica del genere”, è, in generale, un iter psicologico, endocrinologico, medico, legale, chirurgico e burocratico che porta una persona, che sente una dissonanza tra il suo sesso anatomico e il genere che si sente a livello interiore, ad annullare una tale dissonanza.

Nella pratica,  tutto inizia  con l’accertamento, da parte di uno specialista, del fatto che concretamente  la persona non si riconosce nel sesso assegnatole alla nascita. Viene, quindi, formulata una diagnosi, da uno psichiatra o da uno psicoterapeuta. Con questa, è possibile poi rivolgersi a un endocrinologo, che prescrive la terapia ormonale mascolinizzante o femminilizzante. Il passaggio successivo è il cambio dei documenti anagrafici.

Questo è preceduto dal cosiddetto “real life test”, un periodo della durata di circa un anno in cui la persona vive in società come uomo o come donna, a seconda del genere in cui si riconosce. Il cambio dei documenti avviene dopo la sentenza di un giudice. Per ottenere una nuova carta d’identità e un nuovo codice fiscale, secondo la legge italiana, sostanzialmente è necessario andare in tribunale e dimostrare al giudice  la ferma intenzione a non tornare  più indietro. Mancano, però, delle linee guida precise e univoche a livello nazionale. Il percorso di transizione vede l’Italia ancora fortemente divisa da regione a regione.

Nonostante esistano centri specializzati e all’avanguardia a livello locale, e professionisti che si impegnano per facilitare in ogni modo il percorso, emergono comunque ancora lacune nella formazione e nella preparazione del personale sanitario.

Spesso, lunghi sono i tempi della burocrazia italiana, periodi in cui comunque ragazzi e ragazze transgender si trovano a vivere in società con i documenti dichiaranti un sesso in cui non si riconoscono e ai cui tratti somatici e fisici considerati “caratteristici”, dopo mesi di terapia ormonale, non corrispondono ormai più.  

Ha già vissuto situazioni difficili nel suo percorso di transizione, Silvia?

Tante. Per tutto. Secondo me, la legge italiana tende ad essere ancora, come dire, aggressiva nei confronti dei trans. Perché, per esempio, per un  cambio di documenti bisogna chiedere l’autorizzazione del giudice, anche se si tratta di un’operazione anagrafica, amministrativa, non giuridica.

Inoltre, tali pratiche, tali richieste al giudice, capita spesso che vengano accantonate o seguite con una lentezza che giudicherei irrispettosa della persona. I trans sono esseri umani, non bestie.

Ci farebbe esempi di situazioni di difficoltà?

“Per esempio, io dovrei fare un intervento alle corde vocali, dal fonista. Se un trans va da un privato, per un’operazione del genere, allora i tempi sono più brevi, se invece si fa tramite il Servizio Nazionale sanitario, la cosiddetta Mutua, bisogna prima chiedere ed aspettare l’autorizzazione del tribunale. Cosa che significa aspettare anche anni.
Fuori dall’Italia si può fare tutto. In Italia, tutto è più difficile. Posso capire se la cosa riguarda una persona giovane o giovanissima, perché in quel caso la legge vuole verificare che si abbia consapevolezza del passo, senza ritorno, che si vuole compiere. Ma se si tratta di una persona adulta, di 50 anni, come me, la consapevolezza c’è già, perché è frutto di un percorso lungo di vita. In tal caso, secondo la mia opinione, è inutile far aspettare per tempi lunghi l’autorizzazione del giudice. Queste cose fanno male”.

Altre difficoltà?

“Gli ospedali. Non è facile trovare un centro per il percorso di transizione. A Foggia, per esempio, non c’è niente. Io ho anche pagato il ticket e non mi hanno ancora chiamata. Son dovuta andare a Bari. Presso il Policlinico “Giovanni XXIII”, dove sono seguito dall’equipe del dottor Quagliarella, la dottoressa Pace, e dove ho fatto il percorso psicologico in tre/quattro mesi, perché io fondamentalmente ero pronta. Ero sicura della mia scelta”.

Una scelta importante

“Una scelta che richiede consapevolezza di sé, del proprio corpo.  Oggi si tende facilmente a pensare di voler cambiare genere. Ma bisogna essere sicuri. Non si tratta di un capriccio, ma di una necessità. Non è facile per niente. Ed è una scelta da cui non si può tornare indietro. Si tratta di un passo impegnativo”.

Le è mai capitato di rimettersi in discussione?

No. Mai. Mi sento pronta. Il primo psicologo di te stesso, sei tu. Sei tu che devi capire il tuo corpo, la tua testa, i tuoi sentimenti. Man mano che si va avanti, ci si capisce. Io sono pienamente consapevole della mia scelta. E, quando affronto un intervento chirurgico, per la transizione, sono gioiosa. Perché quando hai veramente un obiettivo, lo persegui. Non hai paura.

Quali sono le situazioni in cui sente di stare finalmente bene?

In generale, mi sento bene, meglio con me stessa. Mi sento a mio agio in tutto. E poi, vorrei dire, non sto avendo problemi ad Orta Nova, nonostante sia un piccolo paese di circa ventimila abitanti. Non sto subendo discriminazioni. E se anche qualcuno mi creasse problemi, sarebbero problemi non miei. Perché io sono serena. D’altronde, ognuno ha i suoi problemi. Ci sono uomini che hanno doppie vite. Uomini che sono gay, ma si sono sposati per avere figli. Ma quello non rende uomini. Non bisognerebbe nascondersi. Bisognerebbe essere chiari e puliti. Ma non sarò io a giudicare. Ognuno gestisce le proprie cose”.

La prima situazione vissuta con la sua nuova identità di genere? La prima cosa che ha fatto dopo i primi interventi?

“Uscire. A testa alta. Non mi vergognavo di nulla. Non vedevo l’ora di uscire. Quando cambi identità è tutto diverso. Ti senti finalmente senza contrasti tra fisico e interiorità. Mi sento realizzata in tutto, adesso”.

Avrà avuto le sue prime amiche

“Tante. Poi però molte si sono allontanate. A volte anche per invidia, quell’invidia tipicamente femminile”.

Evidenzierebbe qualcosa in particolare?

“Adesso che sto diventando donna, molti fanno delle avances. Ma non esiste. Ecco, vorrei evidenziare questo: i trans non sono delle escort”.

Progetti per il futuro?

“Ho un compagno. Speriamo bene. Un matrimonio non ci starebbe male [Sorride]. Diventerò donna in tutto. Arriverà l’autorizzazione del giudice.”

Le piacciono i tacchi? …per parlare di cose un po’ più futili…

“Mi piacciono molto. E mi piace l’eleganza. I tubini. Quell’attenzione al particolare che non mi concedevo quando ero fisicamente un uomo. Anche a questo proposito vorrei dire una cosa a quei ragazzi che si vestono da donna: per me, sarebbe più rispettoso della propria persona iniziare un percorso per cambiare genere. Fare un percorso di transizione può essere di grande aiuto per capire se stessi, quando si hanno certe tendenze. Invece, vestirsi da donna, per apparire, mentre si è ancora uomini, lascia nell’indeterminatezza. Non si sa né di carne e né di pesce”.

Il suo lavoro. Lei è una parrucchiera. Cosa rappresenta per lei questo mestiere?

“È tutto. Ho cominciato all’età di 24 anni e mi è piaciuto fin dall’inizio. Ho frequentato delle Accademie per specializzarmi e affinare la mia professionalità. Sono stata fuori. E farlo mi è costato sacrifici. Ma, nello stesso tempo, mi ha aiutato ad esprimere me stessa.
I miei genitori, soprattutto mio padre, all’inizio non condividevano questa scelta, perché un tempo fare i capelli alle donne era considerato un lavoro da donna. Io, in quel caso, ho rotto un po’ gli schemi ed ho aiutato i miei genitori a capire che non vi era alcunché di male o di anomalo”.

I suoi genitori, dice. Cos’altro direbbe di loro?

“Spettacolari. Mi hanno aiutato in tutto. Probabilmente, se avessi raccontato loro della mia diversità, loro avrebbero capito. Io credo. Però ho sempre pensato fosse importante proteggerli da un’eventuale sofferenza. Ed ho trascurato le mie esigenze interiori per questo”.

Un gesto di grande maturità, di forza e di amore.

“Non è stato facile. Però l’ho fatto. Perché i genitori bisogna goderseli. Io odio le famiglie dove si litiga per le proprietà, per esempio. Credo si debba provare piuttosto a stare insieme in serenità.

Ieri sono stata al cimitero a trovare i miei ed ho raccontato tutto a loro. Potevo farlo da casa. Perché io credo che il loro spirito sia sempre con noi. Ma ho voluto avere rispetto anche del fatto che il loro corpo ora è lì. E così, stando ancora un po’ con loro, mi sono sentita più forte e mi sono sentita bene. Più carica”.

Daniela Iannuzzi, 14 febbario 2022