Stato Donna, 13 febbraio 2022. Sono tre anni che non c’è più. Do alle date, alle ricorrenze, il giusto peso. Non sono una fanatica dei regali ma mi piace festeggiare i compleanni e il Natale mi ha sempre scaldato il cuore. Meno la Pasqua, confesso, anche se so che è più importante.
Non ho mai festeggiato un Ferragosto, né mai partecipato ad un trenino di Capodanno, inguainata in un succinto tubino nero di velluto liscio, o di raso, peggio.
L’anniversario della morte di mio padre mi piomba addosso ed è questo il verbo giusto. Perché tutto mi pesa. Parlare, scrivere, lavorare, ascoltare, cucinare, dormire. In questi giorni il verbo è “mi trascino” coniugato in tutti i modi e in tutti i tempi. Non gli piacerebbe, lo so, ma mi capirebbe. Anzi, diciamo meglio. Non gli piace, ma mi capisce. “La vita continua” mi ha detto qualcuno, l’altro giorno. Pur comprendendo le buone intenzioni, non credo ci sia una frase più brutta. No, forse sì. “Asciugati gli occhi e non pensarci più”.
La vita continua, certo, ma è tutto diverso. Intanto perché devi aggiungere “orfano” al tuo stato, e orfano è brutto assai, perché non ha solo la dimensione materiale di un genitore che non vedi più, ma ha anche la dimensione spirituale di un vuoto che non potrai colmare. Della terra che ti si apre sotto ai piedi e un po’ sprofondi e non sai a cosa aggrapparti e, anzi, senti qualcuno che si aggrappa a te e allora ti fai forza. E consoli, e ti consoli, dicendoti che i figli devono seppellire i genitori e che il contrario è al primo posto nella scala di questo dolore. Ti tocca la medaglia d’argento, o forse il bronzo, l’argento è per i fratelli. Che poi, esiste una scala? Per me esiste e mi serve non per ridimensionare, perché il dolore è dolore e va vissuto e non paragonato, altrimenti un dolore sarà meno degno, inadeguato rispetto ad un altro.
Mi serve definirlo perché questo mi permette di analizzarlo, studiarlo, possederlo. Solo così diventa mio e, come tale, lo posso accettare. Sono fatta così. Mi sforzo in questi giorni di ricordare le cose belle che abbiamo fatto. Che sono tante. E invece, mi vengono in mente i giorni in ospedale. Gli odori, i rumori ovattati, le luci accese anche di giorno come le moto, i medici, gli infermieri, le terapie, i compagni al duol. I discorsi, i rimpianti, la speranza, le lacrime, e poi le mani. Le mani sempre intrecciate. “Non mi lasciare Simonetta”, “No papà, non mi lasciare tu”, volevo dire. Ma vengono meno le parole, in certi momenti, in cui una stretta parla per te, in una specie di linguaggio Morse dell’anima. Una stretta “ti voglio bene”, due strette “ti voglio tanto
bene”.
Ci siamo detti tutto? mi chiedo, ogni tanto. Perché questo non potrei sopportarlo. Sapere che potevo dire e non ho detto, che ho lasciato cose in sospeso, dubbi, equivoci. No, sono sicura di questo, niente ombre tra di noi. Niente ombre per me, mai. Sento la tua voce “I silenzi lasciamoli agli altri. A chi non ha il coraggio di parlare e si nasconde dietro la rabbia, la ragione assoluta, l’orgoglio inutile. Non dare retta, tu parla, apapà.” Scritto così, tutto attaccato, che vuol dire “ascolta tuo padre” da noi al sud. E ti vedo che mi fai la linguaccia, dopo.
Da domani, lo so, mi torneranno i ricordi belli, le risate, le battute, l’ironia. Certe metafore incomprensibili per arrivare a dire una cosa senza ferire e le frasi lapidarie che non ammettevano repliche. Gli sguardi d’intesa che parlavano da soli e le discussioni feroci. La politica e le passeggiate in montagna. Da domani, però papà, te lo prometto.
Oggi, no.
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