StatoQuotidiano.it, 06 febbraio 2022. Da decenni, ma in particolare nell’ultimo, l’attenzione verso le minoranze oppresse diventa sempre più certosina, grazie anche allo spazio che i social ci offrono.
In particolare i nati negli anni ’90- come chi scrive- e negli anni 2000 fanno della lotta all’omotransfobia, alla misoginia e al razzismo un vessillo generazionale.
Ovviamente, al di là delle leggi a cui possiamo contribuire solamente esercitando il nostro diritto di voto, i terreni fertili per portare avanti le proprie istanze sono sicuramente i social network: non potranno sostituire la presenza in piazza, ma presentano la possibilità di accedere a una moltitudine insostituibile di prospettive e culture. Una possibilità tanto preziosa quanto pericolosa: nella lotta alla discriminazione però la prima caratteristica prevale indubbiamente sulla seconda.
I social network viaggiano su due binari, quello della parola e quello dell’immagine. La stessa comicità sottoforma di meme è diventata una cultura chimerica, sempre più ermetica, la cui semantica è oggetto persino di studi accademici.
È difficile ridurre la questione a poche parole senza risultare ridondanti o inutilmente arzigogolati; questa premessa è necessaria per esprimere quanto meglio possibile perché gli sketch di Checco Zalone a tema omotransfobia abbiano fatto storcere il naso – e soprattutto non abbiano fatto ridere – una parte della popolazione così consistente.
Sanremo, negli ultimi anni, ha fatto un gran passo verso la community più giovane: da evento stantio, fin troppo solenne e musicalmente arretrato è diventato una delle occasioni più chiacchierate dell’anno. Ed è stato non solo grazie al tripudio di meme generato nei social network ma soprattutto per una direzione artistica capace di guardare al passato quanto al presente, cantando priva l’ondata itpop e poi l’invasione trap. Quest’anno la vera intuizione è stata la corsa al fantasanremo, capace di coinvolgere spettatori e rafforzare la relazione parasociale con gli artisti durante la settimana della canzone italiana. Alla fine, a dimostrazione di ciò, hanno trionfato Mahmood e Blanco.
In questo contesto l’intervento di Checco Zalone è risultato altamente idiosincratico: non che siano mancati momenti di imbarazzo anche nelle altre edizioni ma da una mente acuta come quella del nostro Checco ci si aspettava uno sforzo maggiore di comprendere le istanze della comunità lgbtq+ prima di lanciarsi in una dissacrante stereotipizzazione.
Nella sua carriera Checco Zalone ha dimostrato più e più volte di conoscere l’italiano medio e di saperlo osservare nelle sue meschinerie: la conoscenza è una condizione senza cui una comicità basata sulla destrutturazione degli stereotipi non fa altro che diventare macchiettistica.
Nella “fiaba” che il comico pugliese ha messo in scena l’omofobo medio viene rivelato in tutta la sua ipocrisia: la sua paura verso il diverso non è nient’altro che attrazione. La transessuale da cui però l’uomo si reca è, per l’appunto, macchiettistica: brasiliana, dal grande fallo, prostituta.
Con tutte le possibilità di documentarsi a portata di click Checco Zalone ha scelto proprio gli stereotipi più duri a morire. Parola è potere: i media lo sanno, chi scrive lo sa. Il linguaggio plasma la mente ed è il mattone delle rivoluzioni culturali. Continuare a calcare sulla stessa narrazione delle persone transessuali propagandata da anni non fa che offrire una prospettiva unica, limitata, sminuente. Sarebbe poi da aprire il capitolo sex working: un argomento caldo come quello della prostituzione, che mette in contrapposizione anche diverse branche del femminismo contemporaneo, non può essere ridotto a una barzelletta da bar: troppe questioni ideologiche, legali, antropologiche, sociologiche da tenere in considerazione.
Questo tipo di comicità è irriverente, trasgressiva ed efficace se è l’oppressore a essere messo a nudo; mettere sullo stesso piano comunicativo l’oppressore e l’oppresso vuol dire schierarsi con l’opinione maggioritaria. La comicità è una questione delicatissima di equilibri e io che scrivo non ho sicuramente né le competenze né l’autorità – come non ce l’ha nessuno, per fortuna! – di porre paletti e imporre dei limiti su ciò che si può dire.
D’altra parte non ci si può nemmeno sorprendere, adirare, indignare se le ultime generazioni si sentono tradite da un linguaggio obsoleto e involontariamente offensivo in un festival che ogni anno cerca sempre di più di coinvolgere una fetta di pubblico amplia e di farsi carico di temi scottanti. Che senso ha continuare a premere il pedale dell’acceleratore quando tra gli ospiti c’è ancora chi ha effettivamente difficoltà a distinguere il sesso biologico dall’identità di genere?
La strada della discriminazione è lastricata di buone intenzioni.
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