Come mi intenerisce ricordare Bettina, la sua dolcezza, la sua casa

StatoDonna, 6 febbraio 2022. “Non ti conosco, ma già ti voglio bene” gli aveva detto aprendo la porta e porgendogli una scatola di cioccolatini, che di solito è il contrario. Chi arriva porta qualcosa, “bussa con i piedi” si dice dalle mie parti. E invece stavolta era stata lei. Con la sua dolcezza ed il sorriso che conoscevo bene e che tanto amavo.

Lui era il mio fidanzato nuovo e lei Bettina. Cipria e rossetto, borsa e cappello i suoi biglietti da visita, segni inconfondibili della sua presenza quando arrivavo, ormai adulta, certe volte a casa da mamma. Appoggiati con cura sulla cassapanca sotto all’attaccapanni rivelavano la sua presenza, prima ancora di sentire il profumo familiare della sua cipria, che si metteva con il piumino e che teneva nell’armadio, in camera da letto. Sarei stata, sono stata lì giorni e giorni seduta con lei, anche in silenzio.

A guardarla leggere. Oggi, Gente, la Bibbia, il quotidiano quando erano di carta e ti lasciavano un po’ di nero sulle dita, che non lo sapevamo che era piombo, o almeno io non lo sapevo e mentre leggevo seduta accanto a lei, mangiavo con le mani e ancora non avevamo imparato i tempi e i modi giusti per lavarle. Mangiavo, come merenda, la frutta che mi sbucciava e che sistemava in maniera garbata su un piattino solo mio.

Oppure il pane e pomodoro, con i pomodorini che arrivavano dalla campagna, con l’origano che profumava di vento, e l’olio verde che pizzicava in gola. Tagliava i pomodori da insalata in quattro spicchi e poi me li porgeva così da mangiare. E i cetrioli, ma solo dopo averne strofinato le estremità per far andar via l’amaro. E non metteva il sale, come faceva sui suoi, perché a me non piaceva, prima ancora di sapere che fa male. Oppure, certi giorni forse tristi ma non lo so, tirava fuori dal mobile della cucina dei dolcetti di pasticceria secca. Pasta di mandorle e cioccolato, croccanti ma morbidi, con una strana consistenza deliziosa che ricordo perfettamente come sensazione, ma non credo esista l’aggettivo adatto.

E mangiavamo tutto con le mani sporche di piombo e io avevo anche qualche segno di inchiostro, che se non strofini con l’alcol non va via. Ma non mi preoccupavo più di tanto e nemmeno lei e, dopo, questo mi è sembrato così strano. Poi ho compreso. Quelli erano i segni delle cose che facevamo insieme, lei che sfaccendava o dormicchiava, io che scrivevo poesie improponibili, dedicate a cugine piccole che ancora conservano l’originale nel portafogli, usandolo come potentissima arma di ricatto e fonte di risate infinite.

E invece lei mi faceva i complimenti e mi diceva “Sei bella e brava”. Best fan. In sottofondo a quei pomeriggi l’odore del caffè che macinava ogni volta, e andavo con lei a comprarlo e chissà se ancora esiste quella piccola torrefazione a km zero. Certo io, a distanza di quarant’anni e passa, cerco nelle piccole drogherie il caffè in grani e ogni volta la rivedo. Mentre riscaldava le tazzine capovolte sulla moka napoletana e anche mentre strofinava con vigore il lavandino di porcellana bianca con il detersivo in polvere, che l’odore era terribile ma esiste ancora e quando lo vedo, sugli scaffali dei supermercati, mi intenerisce.

Come mi intenerisce ricordare che per entrare in casa ti dovevi mettere le pattine per non lasciare i segni sul pavimento di marmo che ti potevi specchiare, solo che a sette anni le pattine erano sostituite dai calzini, avevo questa licenza ma non potevo stare a piedi nudi come a casa mia, per carità, calzini senza antisdrucciolo che ancora non esistevano, e scivolavo che era una bellezza, percorrendo centomila volte la strada dalla cucina alla camera da letto, passando per il soggiorno dove il divano era una specie di reliquia, intoccabile.

Foto: evibossanyi.com

Non aveva il cellophane solo perché i figli glielo avevano fatto togliere a forza, ma sedersi era reato. Restavamo in cucina, sulle sedie di legno, un po’ scomode ma non c’era verso. La radio accesa a volume basso, che poi era sorda e capivo che le bastava il brusìo, le faceva compagnia, insieme a suo marito tanto burbero quanto simpatico. E quella complicità meravigliosa che percepivo, me la ricordo bene, e la inseguo ancora.

L’ho amata tantissimo e rimpiango di non aver mai saputo quale fosse la sua ferita. Che cosa cercasse di curare cercando il bello, la perfezione. Vedevo, nella mia ingenuità di bambina, come un desiderio di immortalità, che le cose dovessero sopravvivere in eterno e sempre intonse. Guardare ma non toccare. Come i bambini che non bisogna baciarli, diceva, per non rovinar loro la pelle. Io, mio figlio, invece l’ho baciato assai ed è lo stesso bello come il sole.

Mi interrogavo e lo faccio ancora sul perché di tutto quello strofinare fino a far brillare, di quel profumo di cera Liù che ti assaliva già quando uscivi dall’ascensore. Che non so se esista ancora e non lo saprei descrivere, ma lo potrei riconoscere dopo un nanosecondo.
Sul perché avesse l’assoluto bisogno che tutto fosse non pulito, ma pulitissimo. Il letto teso, con la piega perfettamente stirata e i cuscini simmetrici e rigorosi. Le finestre socchiuse per cambiare l’aria ma le tapparelle abbassate per non far entrare la polvere. Il bagno, gelido, senza termosifone, con gli asciugamani di lino con le frange e le iniziali ricamate a mano e quell’odore forte di Pasta del Capitano quando era rosa e ti lasciava un sapore buonissimo in bocca.. La casa come una reliquia, un rifugio, uno specchio o come vorresti essere. O come vorresti essere vista.

Ci penso ogni tanto, quando suona il citofono e vedo al volo lo zaino degli Scout davanti alla cappottiera, il tappetino dello yoga fare capolino da dietro al divano, sul quale c’è sicuramente uno dei gatti di casa. Vedo però anche me, riflessa nella specchiera di fianco alla porta e apro, fiduciosa nel potere distraente e taumaturgico del mio caffè. Perché io, di ferite, ne ho altre.

Simonetta Molinaro, 6 febbraio 2022

 

Simonetta Molinaro

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