StatoDonna, 20 gennaio 2022. Sessismo e violenza. Odio e patriarcato. Razzismo e xenofobia. Sembra una sequela di hashtag che possono, ahinoi, facilmente legarsi a molti eventi di cronaca, anche tragici, degli ultimi anni. Ma sono tutti temi strettamente legati ai fatti avvenuti la notte di Capodanno in Piazza Duomo a Milano.
Gli inquirenti sono ancora al lavoro, ma ci sarebbero state almeno 9 vittime, tutte ragazze, di cui almeno 2 straniere, aggredite “dai branchi”, mossi non da una regia specifica ma da una immonda, orrenda e bestiale “caccia alla donna”, alla preda, da offendere, schernire, provocare, denudare, derubare.
Senza pietà, senza senso del limite, anzi superandolo con ancora maggior godimento e divertimento, in un gioco malato, in una percezione della realtà alterata dal violento, dal carnale, col modus del carnefice. In vari punti del centro di Milano, specie in piazza, come detto, le ragazze diventano bersaglio, sono accerchiate, spinte, ridotte e lasciate in lacrime, a pochi passi da frotte di gente che scorre via, indifferente, o che neanche si avvede di ciò che accade intorno.
Le ragazze prontamente denunciano tutto, partono le indagini, si usano i più moderni software per il riconoscimento facciale, ci sono i primi fermi, due quasi ventenni fermati a Milano e Torino stavano già progettando la fuga. Sono “italiani di seconda generazione”. E allora parte la coscienza civile e sociale, si mette magicamente in moto. Chi nulla aveva visto in piazza, magari, si fa primo accusatore del diverso, di questi stranieri che non si integrano, che hanno nella loro subcultura questo concetto di supremazia maschile sulla donna, ridotta ad oggetto. Come se fosse un problema di “origine” geografica o religiosa o ideologica. Come se facesse differenza se una violenza del genere e di genere, venga perpetrata da un “romano de Roma” piuttosto che da un milanese con origini tunisine.
Il sistema crasha su sé stesso, implode, si urla al patriarcato, si attacca il “maschio”, poi si attacca lo straniero, si creano le fazioni, si discute, ma non ci si interroga. E, come sempre accade, si dimenticano le vittime.Non si fa dell’empatia l’arma per capire cosa abbia potuto provare ciascuna di quelle giovani donne nel sentirsi sola, violata, spaventata, terrorizzata, nel non poter sapere fino e dove si sarebbero spinti quegli aguzzini che, in cerchio, le attaccavano, le brandivano, le spogliavano, le filmavano, le derubavano.
E non si fa della riflessione, spogliata della faziosità stupida e cieca, lo strumento per capire dove affonda le radici questo disagio giovanile che sempre più spesso dilaga e sfocia nella violenza. Non per farne una giustificazione, giammai, ma per prevenirlo, scongiurarlo, limitarlo.Certo, il mondo ideale è di là da venire, il momento pandemico sembra aver acuito tutte le negatività dell’animo umano, dividendo ancora di più un tessuto sociale già molto sfibrato e sgranato di suo. Per tantissimi fattori, sociali ed economici su tutti.
Ma vivere nella società moderna senza coltivare la speranza e far maturare il convincimento che l’integrazione, in ogni forma, fra italiano e straniero, fra uomo e donna, fra persone, sia possibile, renderebbe vano il vivere stesso. Se ci siamo spinti troppo in là con le speranze, che si possa almeno aspirare ad avere una “agorà” dove delle ragazze possano uscire di casa protette dalla società civile, che guarda, attenta, a cosa le accade attorno, che interviene, denuncia, protegge. Previene e non punta solo, dopo, il dito. Che non sta a badare a chi osteggia alla loro sicurezza, che sia italiano o straniero, adulto o ragazzo, uno o il branco.
Una società civile che tuteli ciascuna di quelle ragazze come se si trattasse di una propria figlia o di una propria sorella… e che si prodighi in una tutela empatica, e preventiva, verso la vittima e non in un’accusa faziosa, e postuma, al carnefice.
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