Stato Donna, 2 gennaio 2022. Lo aveva conosciuto quando aveva quindici anni. Lui ne aveva venti, ed era il fratello di una sua compagna di classe, al magistrale, in quella città tutta bianca, con quella pietra che si trova solo là, dove i rosoni delle chiese sembrano ricamati e le stradine del centro storico si ripiegano continuamente su se stesse. Arrivava ogni tanto a prendere la sorella a scuola, e la aspettava fuori appoggiato al muro, con la sigaretta tra le dita, e si atteggiava, sentendosi grande ed importante perché andava all’università e non era poi così frequente.
Lei era bruna e magra magra, tanto magra che in estate la mandavano da una zia suora, in un convento costruito su scogli a strapiombo sul mare, dove la mettevano all’ingrasso, come le oche, pesandola prima e dopo i pasti. E poi sua madre la portava dalla sarta, a farle cucire i vestiti su misura, e le faceva imbottire sui fianchi le gonne a pieghe e lei piangeva perché non voleva e anzi le piaceva essere magra.
E poi piangeva perché voleva i vestiti confezionati, come quelli che la madre e le sue sorelle, le zie, compravano alla boutique. Ci andavano ogni settimana, per abitudine. Ci andavano per chiacchierare e stavano lì tutto il pomeriggio e si provavano gli abiti mentre dal bar a fianco si facevano portare il the con i pasticcini, quelli di pasta di mandorle con la frutta candita rossa e verde. Compravano sempre qualcosa, che poi facevano mettere in conto e pagavano poco per volta, perché erano più famose che ricche, ormai. Erano quattro sorelle, di una famiglia molto conosciuta, commercianti, ma un po’ in declino, anche se cercavano di mantenere una parvenza di benessere oltre la verità. E organizzavano feste, e pranzi e ogni occasione era buona per sfoggiare vestiti importanti e cappelli, e scarpe. Tutto in tinta, abbinato, e soprattutto una volta soltanto, perché la gente non dovesse pensare che fossero poveri.
E, delle quattro sorelle, sua madre era la più bella e la più ribelle, anche. Era quella che, anche lei a quindici anni, era scappata. Aveva fatto la fuitina. Perché voleva essere libera e per fare questo era scappata con il primo che glielo aveva proposto. Erano scappati a casa della mamma di lui, complice, e poi il giorno dopo erano tornati a casa di lei, dove per tutta la notte i genitori e le sorelle si erano disperati, non tanto perché fosse scappata, ma perché lo aveva fatto senza riflettere. Con superficialità. Non aveva valutato. E infatti, non solo aveva dovuto lasciare la scuola, per sposarsi, non solo lui non era un “buon partito”, ma libera non sarebbe stata mai, perché era anche geloso, molto geloso. E la gelosia, certo non il controllo, era la scusa che usava per giustificarsi quando la chiudeva in casa, ogni volta che usciva. E ogni volta che non le permetteva di andare dalle sorelle. E ogni volta che non permetteva neanche a lei, unica figlia femmina tra due maschi, di uscire con le amiche.
Per questo, quando lo aveva conosciuto, anche lei aveva sentito voglia di libertà. E poi, lui le piaceva tanto,E oggi glielo racconta ogni tanto, perché lui ricorda poco, ormai. Ha quasi novant’anni e sta seduto tutto il giorno sulla poltrona, davanti al camino. La Settimana Enigmistica e la penna, perché con la matita è da principianti. E parla con il cane, più che con tutti gli altri. E lei lo E allora, per uscire, faceva qualunque cosa. Studiava, e aiutava in casa, e si comportava bene. Ma non sempre bastava, come quella volta che davanti all’ennesimo “no” di sua madre che non aveva voglia di discutere con il marito, Gemma aveva rovesciato il letto, sollevando il materasso che era di lana e pesava un accidente e pensava che, cavolo, era servita la vacanza dalla zia suora, a prendere un po’ di peso e di energia. E la mamma, spaventata da quella reazione e anche intenerita perché forse si rivedeva in quella figlia adolescente ed innamorata, la fece uscire, strappandole la promessa di tornare prima che rincasasse il padre.
Perché Salvatore doveva tornare a Napoli, all’università e lei lo voleva salutare perché sarebbe rientrato solo a Natale, e perché era gelosa, come suo padre, e gli voleva fare le ultime raccomandazioni prima che partisse. E si scrivevano. Lettere che lei nascondeva e si chiudeva nel bagno per leggerle, e le risposte le scriveva a scuola, invece di ascoltare le lezioni di latino che comunque non le era mai piaciuto. E poi si erano sposati. Lei aveva ventitré anni e aveva organizzato tutto in un mese, perché lui aveva vinto un concorso in Sardegna, e lei si sentiva morire al pensiero che lui partisse da solo. Che la lasciasse lì. E allora, fece come con il materasso, tirando fuori una forza imprevista. Comprò l’abito senza quasi misurarlo, che poi quando guardava le foto del matrimonio si vergognava, quasi. E in effetti, non la avresti mai riconosciuta.
Perché poi, una volta sposata, aveva abbandonato i vestiti “fatti in casa”, come diceva lei e aveva iniziato a frequentare negozi più eleganti, e aveva tagliato i capelli ed era diventata bionda. Sofisticata, ma con il fuoco dentro. Quello della gelosia, che la spingeva a controllarlo, Salvatore, dando retta ad un istinto che non aveva mentito e lo aveva trovato con la baby sitter, che viveva con loro, come si usava in quegli anni, anche perché in sette anni ne aveva avuti quattro di figli, tutti maschi, e da sola era un po’ complicato.
Ma la aveva cacciata, la Batorica, così su due piedi, dandole la colpa, e giustificando il marito colpevole solo di aver ceduto ad una tentazione, che si sa gli uomini sono deboli. Non ne volle più di ragazze per casa, e lo perdonò e lui le regalò un tailleur di Chanel, verde, che ancora se lo ricorda, perché stava benissimo con i suoi occhi, che sono colore dell’oro fuso. E aveva abbandonato l’idea di insegnare e aveva rinunciato a studiare per l’orale del concorso, dopo aver superato lo scritto. Era troppo difficile conciliare i bambini e la casa con il lavoro, e poi lui preferiva così.
Era sempre in quel modo tra di loro. Un equilibrio tra l’amore, forte, e la prepotenza di lui, troppo maschilista, e i regali e le crociere, e i viaggi e le borse, e le settimane bianche. O forse era solo quello che sembrava a chi guardava dall’esterno. A chi non capiva perché ad ogni pranzo e ad ogni cena lui la criticasse. Perché mangiavano tardi, o perché la pasta era troppo al dente o era troppa, o era troppo poca, o poco condita. Frasi inutili alle quali lei neanche rispondeva. O forse rispondeva dopo, quando rimanevano da soli e nessuno poteva sentire. Quando lei, che sembrava la parte debole della coppia, gli parlava con una tenerezza che lo colpiva sempre, davanti alla quale era disarmato, ma questo gli dava fastidio e sapeva reagire solo così, con quelle offese puerili che però lei sapeva leggere e non si impressionava per niente.
E quando lui ha avuto l’infarto ed era in ospedale, lei piangeva di più quasi perché in quarant’anni era la prima volta che dormivano separati. Lei che i primi quattro figli li aveva partoriti in casa, per non lasciarlo e condividere quel momento e solo per il quinto, maschio anche lui, era andata in clinica dando retta ad un istinto, nonostante lui le dicesse di non andare, e infatti ebbe un’emorragia, dopo, e a casa sarebbe stata dura, per lei e per il bambino.
E oggi glielo racconta ogni tanto, perché lui ricorda poco, ormai. Ha quasi novant’anni e sta seduto tutto il giorno sulla poltrona, davanti al camino. La Settimana Enigmistica e la penna, perché con la matita è da principianti. E parla con il cane, più che con tutti gli altri. E lei lo guarda e gli risponde di nuovo quando lui, per la centesima volta, le chiede che giorno sia. E quando domanda ai nipoti che classe fanno e a quello che va all’università, quale facoltà abbia scelto, anche se è quasi prossimo alla laurea. E lei ride, ma un po’ si agita perché inizia a non ricordare anche lei qualcosa, e ha paura. E allora racconta ancora e ancora, perché non vuole rischiare di dimenticarlo quell’amore, e perché lo sa che fino a quando lei ne parla sarà ancora vivo, e quel signore che butta le bucce dei mandarini nel camino e che dimentica ogni tanto la caffettiera sul fornello acceso è lo stesso ragazzo, sfrontato e un po’ arrogante che, con la sigaretta tra le labbra, la aspettava fuori da scuola.
E Gemma stessa sa di essere sempre quella ragazza e restare legata al passato è il suo modo per continuare a sentirsi viva anche lei, anche oggi. Sa che custodire e proteggere la memoria è il suo modo per accogliere il presente e per costruirsi il futuro. Perché ha capito solo adesso che sarà quella che è stata, o almeno, quella che crede di essere stata ed è grata alla memoria che, generosa, le lascia solo i ricordi belli e la consapevole illusione di essere stata sempre felice. Ed è esattamente questo che vorrà ricordare. Per essere felice ancora.
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