Teatro

Babbo Natale con le scarpe di Luca, il chierichetto

Stato Donna, 26 dicembre 2021. Iniziavamo a prepararci il primo di dicembre, con il Calendario dell’Avvento. Ricamato da me, a punto croce, opera prima ed ultima della mia produzione ma proprio per questo molto preziosa. Lo avevo ricamato la sera tardi, quando lui andava a dormire e, siccome mi conosco, avevo iniziato a fine settembre, perché venticinque sacchettini non sono pochi.

Avevo comprato la tela Aida color avorio e la passamaneria rossa e verde, con agrifogli e renne e abeti. E li avevo confezionati con una macchina da cucire un po’ basica, ma per fortuna, considerato che ci avevo impiegato tre giorni solo per capire come si faceva quella cavolo di bobina che si infila nell’apposito vano.

Che poi ho scoperto che si vendevano già pronti i sacchettini, ma è stato meglio così, non ne sarei così fiera adesso. Avevo comprato un nastrino rosso, di raso, a chiudere queste meraviglie, complici custodi di cioccolatini e gelatine alla frutta, consumate rigorosamente la mattina a colazione. Ventiquattro erano così.

Foto: Casa di oggi

Il venticinquesimo era in tela Aida rossa, che per averla lo so io cosa ho dovuto fare, perché Bezos era ancora un perfetto sconosciuto che aveva da poco traslocato dal suo garage. Per fortuna ho molte amiche, e ne avevo chiamato una, su in montagna perché mi ero ricordata che quella tela la avevo vista ad agosto alla Famiglia Cooperativa, e ci aveva pensato lei.

Erano tutti attaccati ad una ghirlanda, quei sacchettini, ciascuno con uno spillo e la avevamo appesa in alto, alla maniglia della finestra della cucina, perché la dovevamo difendere da Aladino, gatto fratello, che avrebbe voluto tirare tutti quei nastrini che penzolavano, e passava diverse ore a fissarla e una volta lo ha anche fatto, l’agguato. E quei cioccolatini li dovevamo difendere anche da chi arrivava il pomeriggio per un the, o una tisana alla cannella, arancia e mele che ora si trova anche al supermercato ma, quella volta, me la mandava dal Trentino una mia amica, la stessa della tela rossa, e le tisane le preparava lei nella sua erboristeria nella piazza del paese, davanti alle mie montagne rosa, sempre là, sotto quei monti che si chiamano Pallidi senza esserlo mai.

E adesso ci facciamo le tisane, perché siamo tutti diventati anziani e salutisti, ma quando avevamo diciotto anni quegli stessi profumi li ritrovavamo in inverno nel vin brulè e nei punch che bevevamo quando salivamo, con i gatti delle nevi, su nei rifugi dove la neve non era battuta e non c’erano impianti di risalita, ma solo neve, e neve e neve. Arrivavamo già allegri, con le faccette congelate e le guance rosse. Dentro, davanti al camino si stava meglio. Eravamo assai e lo riempivamo, quel piccolo rifugio. E assaggiavamo tutto quello che avesse sentore di mandarino, arancia, cannella, insieme e separati, con una lievissima spruzzata di alcool. Ogni tanto una cioccolata calda, e poi, di nuovo.

Onestamente, ricordo molte, moltissime risate. Ma non saprei raccontarne i motivi. Ricordo molti fidanzamenti davanti a quel camino, e anche un discreto numero di ripensamenti. Ma era bello, perché non si offendeva nessuno e siamo tutti amici anche ora, che quando ci vediamo, sempre in quella stessa piazzetta, uguale ma più fashion, ci abbracciamo e ci raccontiamo per ore e ridiamo sgangherati, che mariti e mogli sono costretti a fraternizzare tra di loro, esclusi e anche un po’ gelosi di quella magia che noialtri abbiamo condiviso da giovani. Poi, quando calava il buio, il proprietario del rifugio tirava fuori gli slittini, quelli di legno e, peggio di Heidi e Peter, ci lanciavamo sulla neve fresca tra i boschi, senza sentieri, a schivare alberi e a cercare di non ucciderci l’un l’altro. E quando arrivavamo giù avevamo smaltito tutto e ci rimaneva solo il sapore dei mandarini sulle labbra e nel cuore, e quei pomeriggi mi vengono in mente ancora, ogni volta che mi capita di sentire il profumo delle bucce dei mandarini appoggiate sulle stufe o bruciate nei camini.

Poi, iniziavamo i preparativi per il presepe. Anzi, i presepi. Uno con la capanna che avevano costruito lui e il papà con dei pezzetti di legno che il mare aveva riportato a riva e che avevamo raccolto un giorno sulla spiaggetta del raffreddore, e anche con l’erba gatta che cresceva veloce e faceva il prato, che poi Gesù era nato nel deserto, ma va bene uguale così anche Aladino era contento, e con le statuine di resina comprate ai mercatini e alle quali ogni anno ne aggiungevamo una. Il panettiere, la lavandaia, il calzolaio.

Sempre diverse, perché di pastori e pecorelle ne avevamo in quantità industriale che neanche a Betlemme e provincia. L’altro era alternativo, in una sorta di fratellanza tra i personaggi Disney e i supereroi della Marvel, un presepe a misura di bambino e se lo addobbava da solo, come l’alberello suo personale. E lo rifaceva ogni giorno, perché Aladino la notte andava a dormire nella capanna costruita con le scatole dell’Ikea, ma lui, Francesco, non si scomponeva e al mattino lo ricostruiva con pazienza e non aveva neanche ancora letto l’Odissea e Penelope non sapeva chi fosse.

E poi, un anno avevamo trovato una ricetta pazzesca della pasta di sale e avevamo preparato dei pendagli con le formine dei biscotti, che ancora ce le abbiamo, dopo venti anni. Finito Natale, le mettiamo in un contenitore nel frigo, e guai a buttarle. Ogni tanto, durante l’anno, le guardiamo e io mi intenerisco, confesso. E poi, finiti gli addobbi, attaccavamo con i dolci. Lui, in piedi sullo sgabello (che sempre santa Ikea fa per i bambini che si lavano i denti da soli e non arrivano al lavandino) con un matterello piccolino. Le maniche alzate per non sporcarsi e tanta buona volontà espressa in una faccina molto seria. “Mamma, mettiamo le canzoni”. Le canzoni erano quelle di Natale, un CD vecchio vecchio, sempre lo stesso, che sapevamo a memoria. E cantavamo mentre preparavamo un sacco di dolcetti, leitmotiv cioccolata. E poi, la sera, salivamo dall’avvocato Elio e dalla signora Luisa, e orgoglioso li portava lui, sistemati in piattini di Natale, e li mangiavamo mentre giocavamo a tombola.

E poi, in un piattino uguale, metteva i biscotti per Babbo Natale, con una tazza di latte, la notte del ventiquattro.

E appoggiava sul divano una copertina rossa con il bordo a quadretti, un abete bianco e la scritta “Buon Natale” che gli aveva fatto mia madre, perché diceva “Mamma, se è stanco può dormire, ma si deve coprire sennò gli viene la febbre”, che ogni volta mi dovevo girare da un’altra parte perché ridevo e piangevo e speravo di non fare troppi danni, con certe deformazioni professionali. La mattina poi scartava contento i regali ed erano sempre cose piccole che chiedeva. Di solito dinosauri, se tirannosauri, meglio. E quando aveva tre anni era arrivato Babbo Natale in carne ed ossa e Francesco gli aveva detto “Hai le scarpe come Luca”. Ecco. Il chierichetto che il don aveva assoldato e aveva le scarpe che forse hanno ispirato la Lidl e che, in effetti, quando serviva Messa, le vedevi pure se avevi trovato posto solo negli ultimi banchi.

Mi vengono in mente queste cose, ogni Natale. Anche adesso che ha ventiquattro anni, che quando mi abbraccia mi stritola, e vive solo, studia, viaggia, va, torna. Pandemia permettendo. E l’altro giorno mi ha detto, facendomi l’occhiolino e un sorriso complice “Ma’…lo sai che ho scritto la letterina a Babbo Natale? Mi andava, quest’anno”. “Hai fatto bene amore. Anche io l’ho scritta”. Vabbè, forse non ho fatto molti danni, e nemmeno li hanno fatti i dolori che purtroppo la vita presenta. Inevitabilmente. Buon Natale, tesoro della mamma.E tanti auguri a tutti.

Simonetta Molinaro, 26 dicembre 2021

Simonetta Molinaro

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