In quel lembo di Puglia dove in tanti sono partiti e tornano ad agosto

Le pettole piccole e tonde, fritte e mangiate bollenti, con le mani una poi l’altra.

Stato Donna, 12 dicembre 2021. Mi chiamava il sei dicembre, nel pomeriggio. Come sempre, senza neanche salutarmi, “Domani all’una -mi diceva, e basta.

“Ciao bella mia, non mangiare dolci”. Già, perché il sette è vigilia, e si osserva il digiuno, in quel pezzetto di Puglia dove si incrociano due mari, dove tra gli ulivi la terra è rossa, anche se sono spuntate le pale eoliche, prepotenti ed inutili che qui l’aria è sempre immobile, dove tra le dune davanti al mare nascono fiori, dove i fenicotteri camminano nelle oasi protette e i trulli punteggiano giardini digradanti verso il mare. In quel pezzetto di Puglia dove la terra ha avuto spesso un sapore amaro di povertà e fame e in tanti sono partiti per poi tornare ad agosto, con i figli che si chiamavano Mimmo, ma parlavano tedesco. In quel pezzetto di Puglia dove l’olio è dorato e i pomodorini hanno il colore del sole al tramonto, né rosso né arancione, e il pane sa di grano e di legna profumata.

Pensavo tutto questo mentre in macchina raggiungevo Archimede, partendo dal posto dove abitavo, con le case di tufo imbiancate di calce e quei giardini nascosti dietro muri altissimi, a proteggere case nobili, che un tempo erano state conventi e custodivano segreti che non si conoscevano ma si percepivano e si immaginavano, pruriginosi e proibiti o semplicemente drammatici. Di solitudine e di rinuncia, di scelte imposte dal rango, o dalla vergogna di essere peccatori. Peccatrici, il più delle volte.

Ed io abitavo proprio in una di queste case, con un portoncino piccolo, di legno, che si schiudeva su uno scrigno, dove la meraviglia della natura e la maestrìa dell’uomo si fondevano, e gli alberi di mandarini e di limoni profumavano l’aria con i fiori prima e con i frutti dopo, e cycas alte e generose facevano ombra a piante di peperoncini piccanti, appositamente ordinate dal Messico, quando l’Internet era cosa per pochissimi, e conoscevamo solo la posta aerea, che quando ti arrivava la lettera con quel timbro ti sentivi importante e moderno.

Foto: Newsly.it

E le roselline gialle e spampanate che arrivavano a maggio erano a dicembre annunciate da fiorellini bianchi e minuscoli che crescevano spontanei sulle pareti altissime di quel giardino privato dove ci affacciavamo in tre e uno era l’avvocato Dimitri, che per la prima volta mi aveva parlato del digiuno dell’Immacolata. Lui, fine storiografo e massimo conoscitore dell’argomento tanto da scriverci libri e tenere conferenze, ci aveva raccontato, una sera tiepida, di questa tradizione che oggi stavamo per onorare con Archimede. Il digiuno dell’Immacolata, che dalle parti mie non usava, ma che mi piaceva un sacco e lo avevo fatto mio.

Una tradizione che, nel tempo, era diventata un ricordo, con molto meno digiuno. E infatti sulla tavola, apparecchiata con una tovaglia di lino, ricamata a mano dalle monache Servite famose per le vicissitudini del loro Ordine di clausura e per l’arte del ricamo, c’era qualunque cosa. Tutto nella ceramica di Grottaglie, con i galletti colorati o i fiori blu, tre puntini vicini su una terracotta avorio.

Le pettole piccole e tonde, fritte e mangiate bollenti, con le mani una poi l’altra. Le rape affogate, con il profumo di aglio, peperoncino e molto olio, come la ricetta vuole. Il tonno quello vero, che arrivava direttamente da un ristorante che ne aveva fatto la propria fortuna. E i formaggi. Stagionati, freschi, morbidi, aromatizzati. E poi le olive, amare. Nere, soffritte con l’alloro, l’aglio ed il peperoncino.

Il pane, cotto nel forno a legna con la farina benedetta dai frati, come a giugno, quando si celebrava la festa del loro Santo, e il pane nutriva corpo e spirito. Le frise di orzo, immerse un secondo nell’acqua, e condite con i pomodorini gialli, quelli invernali con la buccia dura e l’interno aspro. Il Primitivo, per tutti ma non per me, che con il rosso non rispondo delle mie azioni. Nel mio calice un vino bianco, bollicine arrivate dalla cantina di Archimede che mi abbracciava intenerito ridendo quando dicevo “Alla faccia del digiuno. Figurati se dovessimo mangiare”.

Ma non era una mancanza di rispetto. Non era spreco. Era un omaggio alla terra dove eravamo, da dove quella usanza era partita. Ai suoi frutti, ai suoi profumi, ai suoi colori. Alle cose profonde che si vedono con il cuore prima che con gli occhi. A quelle radici che puoi far finta di dimenticare, che puoi voler lasciare sotto terra, o decidere di tagliare, se ti fa sentire meglio. Per poi magari scoprire che serve solo un terreno più fecondo, o diverso, magari. O dell’acqua. Che basta spostarsi di un metro per attecchire, e che le radici possono non essere catene ma elastici per tornare sempre dove eravamo, o catapulte per andare lontano lontanissimo. O ali. Perché il cambio di prospettiva aiuta a vedere meglio quello che da vicino magari apprezziamo poco.

E tornare non sembra più così terribile. Oppure sono parte di te e ti aiutano a tenere insieme i pezzi, come una rete che contiene e mantiene con saldezza gentile, ed è capace di lasciare uscire ciò che non serve più o addirittura ci fa male perché tossico, e fa entrare il nutrimento necessario. E puoi andare ovunque, imparare cose nuove, conoscere persone differenti, scegliere tradizioni sconosciute e ogni volta ritrovare un te migliore.

Simonetta Molinaro, 12 dicembre 2021

 

 

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