Stato Donna, 28 novembre 2021. Le sono rimasti due denti soltanto. E nemmeno in corrispondenza l’uno dell’altro così, quando deve masticare, è una gran fatica. Mangia pastina in brodo, la tempestina o quelle farfalline che solo a guardarle le danno fastidio per quanto sono scivolose, e vellutate di ogni tipo carote e zucca e zucchine e broccoli, che non ne può più, ma non ha il coraggio di dirlo alla figlia la quale usa un aggeggio che costa un sacco di soldi e lei proprio non li avrebbe mai spesi.
Che poi funziona bene eh, fa tutto, anche i dolci, pesa e impasta e cuoce e la figlia è contenta perché risparmia tempo e poi ci sono le ricette. Ogni tanto vorrebbe chiederle di schiacciare qualche cappelletto con la forchetta per sentirne almeno il profumo, e di metterci su un po’ di brodo e di parmigiano, come piace a lei.
Ma già immagina quello che direbbe, la figlia che è andata a studiare a Milano, e poi ha sposato un dottore. Lei insegna e fa ogni tanto la maestrina, soprattutto quando si incontra con le amiche, il giovedì pomeriggio per giocare a carte. Vengono vestite eleganti e con il rossetto e certe unghie perfette che sembrano finte. Lo sono, sospetta. E allora prima che arrivino, si mette un vestito scuro e anche la dentiera perché la figlia ci tiene e si vergognerebbe.
Si vergogna anche di certe cose semplici, come l’uovo sbattuto con un goccino di caffè che a lei piacerebbe ogni tanto a colazione, ma non lo chiede mai perché la figlia dice che è cafone. Allora beve quel the, che ha un nome strano, più strano ancora del sapore, e lei non lo sa pronunciare e i nipoti un po’ ridono, ma poco, perché quella nonna dolce in realtà la adorano. E suscita curiosità e rispetto, quando racconta della miniera, e del nonno che scendeva laggiù a lavorare. Che tutto quello che sanno lo hanno saputo da lui, quando erano piccoli, e poi da lei che ha un modo di raccontarlo come se fosse una favola.
La miniera e tutto quello che le girava intorno. E allo stesso modo lo raccontava anche a me, quando ci siamo conosciute e abitava ancora qui. Aveva telefonato in farmacia, perché a suo marito serviva una bombola di ossigeno e non c’era nessuno che la potesse venire a prendere. “Signora, sono da sola…può aspettare fino all’una?” Avevo poi assoldato un aiutante, al bar, e me la ero fatta caricare in macchina. Poi, a chiusura, ero partita. Abitavano in un posto che io, dalla finestra sul retro, vedevo bene ma in realtà non era vicinissimo. Mi chiedevo, mentre guidavo, come facesse a venire in paese tutte le settimane. Mi spiegò che scendeva a piedi, ma poi per tornare, con la spesa, trovava sempre qualcuno che le dava un passaggio.
Mi aiutò a prendere la bombola che pesava più di noi due messe insieme e poi la roteammo fino al divano, dove Luigi riposava. E lei, piano piano gli sistemava il plaid sulle spalle, e mi fece effetto, per la dolcezza dei modi e la cura, e perché quel plaid fatto di piccole mattonelle lavorate all’uncinetto ce l’abbiamo tutti, e mi era venuta in mente mia nonna, che ne aveva fatto uno tutto blu notte e bianco, e me lo metteva addosso quando faceva freddo e volevo andare per forza fuori con lei a prendere le uova, oppure qualcosa nell’orto. Poi, quando lei è morta, me lo sono preso, e ce l’ho ancora. E me lo metto addosso quando leggo o scrivo fino a tardi, in inverno.
Mi invitò a pranzo, e mentre mangiavamo mi raccontò di come erano cresciuti insieme, da bambini, e poi si erano fidanzati e poi sposati. E lui, come tutti gli uomini del paese, era andato a lavorare alla miniera. Che era enorme, su nove livelli e ogni volta che Luigi usciva per andare a lavorare, si salutavano come se non si dovessero più vedere. Avevano deciso così, e così hanno fatto fino a quando la miniera ha chiuso, e ogni giorno ringraziavano il Signore per quel giorno in più che avevano vissuto, per quell’altro bacio che si erano potuti dare. Mentre lui era in miniera, Anna lavorava in fabbrica. Tutte donne. Ricordava quei tempi con gioia, nonostante la paura per il lavoro pericoloso del marito. Perché poi, quando lui tornava a casa, si lavava e si sedevano nel giardino, davanti a certi tramonti che da quella parte della valle sono spettacolari e scaldano il cuore e davvero mi spiego perché poi non sono andati via nemmeno quando la miniera ha chiuso, e lui ha dovuto cercare lavoro giù al mare, che poi neanche quello è servito a non farlo ammalare.
Stavano lì a chiacchierare. Lui le raccontava del buio, dell’odore e dell’attenzione che doveva essere sempre massima. Della cura per i compagni e del desiderio di respirare aria fresca, e pulita. E lei gli parlava delle sue colleghe, che litigavano per certe sciocchezze e perché si contendevano i fidanzati, e ridevano di quelle storie semplici. Che ancora la facevano sorridere, anzi, forse di più. Perché c’era anche la tenerezza per la gioventù andata, adesso.
Non l’ho mai vista triste. Solo quando Luigi si era aggravato, e solo quando veniva in farmacia. Altrimenti, mai.Me la ricordo bella, diritta e dignitosa in processione, ogni anno a santa Barbara, e poi alla fiaccolata al posto di Luigi, che non ce la faceva. E dopo, quando lui non c’era più, alle celebrazioni in onore dei minatori. La andavo a trovare ogni tanto, e guardavo con lei il tramonto, in silenzio. E lo faccio ancora, in estate, quando torna. Si fa accompagnare dalla figlia a giugno e rimane fino a settembre. Le porto la spesa e quando mi vede arrivare si mette la dentiera, per rispetto, dice. E ridiamo e mi racconta di aver mangiato i cappelletti schiacciati e tutte le mattine si prepara lo zabaione, perché fa il pieno per quando tornerà su, dalla figlia ed è contenta di andarci, certo, ma è più contenta quando sta qui.
Perché ritrova il suo Luigi nelle cose piccole di ogni giorno, in certi angoli del giardino, negli alberi che avevano piantato insieme, nelle albe e nei tramonti e perché con lui, senza saperlo, e senza conoscere aforismi di gente famosa, davvero avevano fatto della loro vita un capolavoro.
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