OIl racconto muove dalla notizia della morte del direttore del giornale, un simpatico signore, rigido nel lavoro (il motto che compare affisso anche sulla porta del suo ufficio è “Qui è vietato piangere”), che sa essere anche molto umano: la redazione vuole pubblicare un memoriale in suo ricordo e prende così inizio lo svolgersi di quattro singolari storie che raccontano altrettante realtà, uniche ed emblematiche.
“The French Dispatch”, ovvero l’arte di…
… l’arte di spingere lo spettatore ad andare al cinema per assistere ad una rappresentazione teatrale, con la scenografia di cartone di una antica caratteristica cittadina parigina o inglese o americana di fine Ottocento o di inizio Novecento.
… l’arte di mescolare la pellicola cinematografica in bianco e nero con quella a colori, ma colori che sem-brano tenui pastelli di miniature tipiche delle case piccole borghesi.
… di far credere di assistere ad un film a sfondo sociologico o psicoanalitico o di pura indagine giornalistica, per poi accorgersi di scorrere un fumetto o un cartone animato, dove la realtà si mescola con la fantasia, ma non per questo la realtà è meno vera.
Perché in questo film tanto garbato quanto ironico, si toccano tanti temi, con la leggerezza di chi ha in mente il provocatorio teatro di avanguardia del futurismo italiano o del surrealismo russo dei primi decenni del Novecento. Come non vedere l’occhio che il regista strizza alla psicoanalisi nel secondo racconto, in cui si rappresenta il criminale che crea opere che nessuno comprerebbe se non avesse alle spalle un impresario d’arte? E come non pensare a Ligabue che cedeva i suoi quadri chiedendo in cambio prima le biciclette e poi le macchine? O come non ricordarsi delle rivendicazioni del ’68, degli ideali giovanili che si incartano nella revisione di un documento, tanto da essere ingoiati dalla cronaca e dalla borghesia che i giovani volevano distruggere? E che dire del pensiero che corre, nell’ultimo episodio, ai tanti programmi di cucina e di cuochi talentuosi, che finiscono col far perdere di vista il sano rapporto col cibo e con la natura? Ed il cenno all’ecologia nel primo racconto col giornalista in bicicletta, che gira nel caos del traffico urbano è davvero un tocco lieve che porta a riflettere, per poi volgere lo sguardo altrove.
Confesso: durante i primi venti minuti di visione, ho pensato di assistere ad un film demenziale e confuso. No, non è così, mi son detta dopo: è semplicemente una pellicola surreale, che racconta il caotico vivere dei nostri giorni, la confusione che non è nata ora, ma almeno dalla fine dell’Ottocento. I topi nelle fogne c’erano nella Parigi di Hugo e nella Londra di Dickens e ci sono ora. Cosa è cambiato ora? Forse la possibilità di desiderare di cambiare una realtà, che si mescola coi sogni, che ci suggestiona, ci impaurisce, ci mette ansia, ma è la nostra realtà. È una realtà che va oltre il caotico vivere di una città metropolitana, è il sogno di un rapporto umano da ricostruire, nell’ambito del luogo di lavoro, nelle relazioni d’amore e di amicizia. E’ un sogno che distorce la realtà che non piace, per riportarla a livelli umani. È un canto al giornalismo che deve volgere il suo sguardo sull’animo, oltre che sui fatti.
È un omaggio al cinema che cerca di parlare ai giovani: ed ho avuto l’impressione che ci fosse più di un riferimento ai racconti “confusi” (o opportunisticamente confusionari, nella loro logica incalzante) di Zero Calcare? Ed infatti, ho avuto l’impressione che proprio al pubblico più giovane presente in sala sia maggior-mente piaciuto. Ma ha catturato l’attenzione e conquistato l’approvazione anche di una spettatrice attempata come me.
Genere: drammatico, romantico, comico, giallo. Praticamente inclassificabile. Ed infatti questa resta la definizione più adatta a mio parere. La pretesa cornice, stantio topos letterario prestato stancamente al cinema, viene vestita di una banale ironia ed è usata per giustificare qualsiasi incoerenza della storia, una storia che non c’è e che si presenta che una mediocre forma di teatro dell’assurdo. Il plot parla di un giornale divulgativo, dei suoi giornalisti, di vicende tratte dalla strada, dalla cronaca, ripescati per onorare la memoria del defunto e spietato caporedattore: non si piange qui dentro è l’imperiosa e poco funzionale epigrafe che sormonta la porta dell’ufficio.
All’interno quattro episodi chiusi in sé, elemento che si comprende solo alla fine del secondo episodio nel mentre ci si interroga, ancora speranzosi, su quale sia l’obiettivo cui il regista tende. Ma il regista tende soltanto ad ostentare un sapere posticcio, frammentarie conoscenze settoriali, giustapposte e non chiare. L’uso ossessivo del bianco e nero sottolinea la monotonia, non smossa neppure da sprazzi di scene pulp, alternate a scene surrealiste. Curiosamente ridicoli e gratuiti persino i nomi dei diversi protagonisti, penso soprattutto a Lucinda, che non fa che ripetersi e ripetere che un cronista deve restare assolutamente neutrale, ma non ci riesce affatto e di luce non ne riesce proprio a portare nel racconto, o Zeffirelli, personaggio tutto sommato tridimensionale, ma il cui nome in questo contesto è un nonsense assoluto.
La presunta raffinatezza di un sapere elitario trova asilo anche in scenografie teatrali molto dettagliate ma assolutamente piatte, salvo la scena dell’allestimento del lunedì mattina nella sua banale e rassicurante quotidianità. Un po’ di movimento accade quando viene concesso agli attori di muoversi quasi danzando, come in un musical, o quando, in modo assolutamente illogico e piuttosto gratuito, l’ultimo episodio si tramuta in un cartone animato. Tanto rumore per nulla, in somma, tutto già visto e cucito male.
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