Teatro

L’avvocato innamorato e la malinconia dei giorni perduti

Stato Donna, 20 novembre 2021. Lo incontravo tutte le mattine mentre andavo a lavorare. Prima mi fermavo al bar, dalla signora Giulia, che mi vedeva arrivare attraverso la vetrata centrale e mi faceva trovare il cappuccino bollente, perché sapeva che andavo di fretta e mi faceva guadagnare quel minuto di tempo.

Bevevo di corsa, rischiando ogni volta l’ustione, mitigata dal bicchiere di acqua fresca che, con noncuranza e senza che glielo chiedessi, mi porgeva con un sorriso complice. Prima di uscire mi diceva “E’ già arrivato”. Un occhiolino e andavo. Lo vedevo e ogni mattina provavo la stessa fitta. Malinconia, credo fosse. “Angelo, come va?” “Dottoressa, tutto bene” Si toglieva il cappello, che portava sempre, estate, autunno, primavera, inverno. Ne aveva tanti perché un gentiluomo non esce senza, mi aveva detto una volta.

Mi sedevo accanto a lui, sulla panchina, in silenzio. Odorava di buon profumo e di caffè, e quando mi prendeva la mano e faceva come per baciarla, la sua era asciutta e fresca. Era vecchio, non anziano. Vecchio senza sembrarlo. Sapevo quanti anni aveva perché me lo aveva detto lui, un po’ triste e un po’ compiaciuto. Abitavo in quel paese del Salento, che non era il posto dove sono nata, da un paio di anni quando lo avevo conosciuto. Stavo in una casa del centro storico, dove la strada ha quelle vecchie pietre bianche consumate, le chianche, e dove i bambini giocano all’ombra del campanile della Chiesa Madre, come la
chiamano in paese.

Foto: Salento trend

Dove, alla fine della via, c’era una torre con un orologio, che funzionava e suonava
ogni quarto d’ora, notte e giorno, e ti faceva compagnia in certe notti afose, che non riuscivi a dormire dal caldo, e contavi le ore, e ti sembrava di essere proprio sotto la torre per come era forte, perché le finestre erano aperte e dal giardino arrivava il profumo di quelle roselline gialle che si arrampicavano lungo il muro affianco del portone e salivano e lo scavalcavano quel muro, affacciandosi dalla parte opposta, sul fronte della casa, che era diversa dalle altre che si adornavano di bouganville, con quel viola prepotente che ti aggrediva dai muri bianchi di calce.

Le mie roselline erano gialle e spampanate, nascevano e crescevano da sole perché avevano capito che era meglio così. E profumavano, ma tanto, che le sentivi già prima di girare l’angolo. Di fianco a me, due numeri civici più in là, abitava una coppia, lui avvocato e storiografo, lei insegnante.

Vecchi, vecchi anche loro. Divini. Angelo lo avevo conosciuto a casa loro, un pomeriggio in cui ero passata a bere un caffè, e ad ascoltare le storie che l’avvocato raccontava, con quel suo linguaggio unico, un italiano perfetto e forbito ma non pedante, in cui ogni tanto facevano incursione parole in dialetto o in latino o in greco, era uguale, e io sarei stata ore a sentire i suoi racconti. Che poi venivano riassunti da lei, in tre minuti, nei quali oltre ad operare l’estrema sintesi, trovava anche il modo di criticare il marito. “Lento sei. ‘Nu disastro”

Ma lo diceva con gli occhi che ridevano, per vezzo e con amore. Angelo era loro amico. Stava andando via, mentre io arrivavo. Me lo presentarono e poi la signora Isa mi raccontò la sua storia. Mi parlò di questo avvocato, bello e famoso, sciupafemmine, che ad un certo punto aveva conosciuto una donna. La donna. La donna della sua vita. Quella che lo aveva fatto innamorare, che lo aveva catturato con la bellezza, certo, ma anche con la dolcezza e la profondità dei pensieri, con l’indipendenza che guidava ogni sua scelta, con la capacità che aveva di essere raffinata e sportiva, semplice e provocante. Quella che ascoltava incantata le cose che lui raccontava, ma non era in soggezione se era lei, a parlare. Quella che non si vergognava di essere fragile e accoglieva senza giudicare le debolezze dell’avvocato. Che, piano piano, si innamorò di questa donna.

Lei, più giovane, lo faceva sentire amato ed era naturale prendersene cura per lui, e questa reciprocità dei sentimenti era forse per entrambi, per motivi differenti ma simili, un’esperienza nuova. E furono baci e furono sorrisi, direbbe il poeta, fino a quando la vita decise per loro, e lui rimase da solo. Scoprì, l’avvocato che la solitudine non è una condizione fisica, o almeno non solamente. La sua era una solitudine che viveva come un senso di abbandono, che non induceva alla riflessione come spesso accade a chi, ad esempio, fa dell’arte la sua professione e trova nel silenzio ispirazione. Al contrario, la sua solitudine lo portava verso la disperazione, verso la tangibile sensazione di una fragilità che era però anche la sua forza, ma lui non lo sapeva.

E la malinconia, la voglia di piangere, il desiderio di raccontare di lei, i ricordi, diventavano poesia in quell’uomo. Che, ormai anziano e poi vecchio, si sedeva su quella panchina ogni mattina, bello ed elegante. Mi disse un giorno che si vestiva come se dovesse incontrarla, come se lei potesse arrivare da un momento all’altro e lui voleva essere perfetto.
Mi raccontava, ogni giorno, episodi della loro vita, le cose che si erano detti e come lui, al lavoro, aspettasse con ansia il momento di incontrarla, ogni giorno e di quanto avrebbe voluto avere la possibilità di parlarle, una volta, perchè troppe erano le cose che si dovevano dire ancora.

Sinceramente era struggente per me ascoltarlo. Mi faceva una gran tenerezza vederlo su quella panchina. “Dottoressa” mi chiamava. Mi portava le foto della loro vita, mi raccontava di quel vestito che lei aveva, il colore delle scarpe, quel vezzo della fessura tra i denti.
Consumava le foto a furia di accarezzarle, perché erano le uniche cose alle quali si poteva aggrappare, insieme a quella tristezza che gli faceva compagnia, e dalla quale lui non rifuggiva e che non odiava. Che non gli impediva di sorridere, o coltivare amicizie di una vita. Ma quel momento era per loro. Per i ricordi. I ricordi che si stratificavano nella sua anima e ogni strato era un pezzettino di vita, un giorno vissuto, un caffè insieme, una passeggiata in macchina, in silenzio e con le mani che si sfioravano parlando al posto loro. La sua malinconia era garbata, mai noiosa e divertente, anche, a tratti. Gli facevo compagnia per un po’ e poi andavo a lavorare, pensando che anche io avrei voluto essere amata come quella signora. In realtà, tutti lo vorremmo.

Simonetta Molinaro, 20 novembre 2021.

Simonetta Molinaro

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