Stato Donna, 13 novembre 2021. La rubrica “Dissolvenze” racconta storie che hanno segnato la sensibilità, perdite che ancora bruciano, malattie che qualcuno sta affrontando, impressioni catturate interpretando e commentando, fra sé, gli incontri con le persone. Simonetta Molinaro, farmacista territoriale e criminologa forense, scrive di “lacrime nuove” per il suo primo appuntamento con Stato Donna.
Ad un certo punto le avevano detto che il nonno era partito. Le era sembrato molto strano, in realtà, che potesse essere partito senza salutarla. Ma scusa, che cosa poteva essere mai successo di così grave da impedirgli di darle un bacio, di tirarle le trecce, un buffettino sulla guancia…qualunque cosa, uno qualsiasi di quei gesti affettuosi che ogni giorno lui aveva nei suoi confronti. E poi, dove era andato? Era la sua prima nipote, l’unica fino a quel momento, e vivevano tutti insieme, in quella casa con la torre, grande, con quel cortile dove venivano a giocare anche i bambini delle case vicine, perché la guerra era finita da pochi anni, e c’era una grande solidarietà, in giro, e il pomeriggio dopo la scuola, i bambini stavano tutti insieme, con le nonne sedute davanti alle porte a sorvegliare, e a preparare merende sostanziose, come pane burro e zucchero, e a distribuire pezzi di cioccolata, che era un gran lusso.
I nonni maschi e i genitori erano a lavorare, perché bisognava ricostruire e bisognava farlo in fretta, anche. La guerra era finita proprio l’anno prima che lei nascesse, piccola e garbata fin dai primi giorni. Silenziosa ed attenta, con quegli occhi che ti scrutano dentro, ancora oggi che di anni ne ha abbastanza, ma è sempre piccola e garbata. Silenziosa, magari meno, e attenta sempre. Di più. Il nonno era bello e sorridente. Lavorava tanto, perché ricopriva un posto importante in un’azienda agricola vicino casa, mentre la nonna che aveva un nome da principessa bizantina, ma modi pratici e poco romantici, faceva la sarta. Cuciva solo abiti e camicie da uomo, e i suoi clienti erano facoltosi.
Arrivavano da tutta la regione, e anche da quella vicina, con certe macchine lunghe che lì non si vedevano neanche quelle corte, perché giravano tutti con la bicicletta, che poi quella città è diventata non solo patrimonio dell’umanità, ma anche la città delle biciclette, e si sprecano le barzellette sulla nebbia e sull’andare in bicicletta nella nebbia. Ma non arrivavano solo con le macchine e l’autista. Arrivavano anche con l’elicottero, che atterrava in un campo enorme davanti alla casa della torre. Scendevano e arrivavano in casa dove la nonna prendeva le misure senza parlare, e poi stabiliva il giorno della consegna dell’abito. Mai fatta una prova intermedia.
Lei la guardava incantata, in silenzio. La nonna, con i capelli legati a crocchia, e il grembiule per non riempirsi di fili il vestito, toccava la stoffa che il cliente aveva portato, ed era successo che rifiutasse il lavoro, se non giudicava la stoffa all’altezza. E andavano via, senza neanche prendere le misure, perché non aveva senso, con la stoffa sbagliata. Lei ammirava tantissimo quella sua nonna, così autorevole da non aver neanche bisogno di dire “no”. Tornavano sempre, con le stoffe giuste, come aveva raccomandato lei. Che sorrideva, mentre le esaminava. Dal rovescio, naturalmente. Gli abiti erano sempre perfetti, e la voce si spargeva in fretta, così il lavoro aumentava, e la nonna era sempre indaffarata.Lavorava tantissimo, e non si godeva per niente la vita, ma in realtà era quello che voleva fare. Diversamente dal nonno, che invece aveva una passione assoluta. L’opera. Quando lui era a casa, la musica denunciava la sua presenza. E anche la sua voce, da baritono, che riempiva il salotto, e il bagno padronale, al primo piano.
Ogni tanto arrivava a casa e diceva alla moglie “Preparati, andiamo all’Arena” perché Verona non era tanto lontana, in fondo. Ma lei diceva quasi sempre di no e allora lui partiva da solo. Una volta portò la nipotina, che lo guardava mentre si preparava, ed era così elegante, e lei così orgogliosa.
– “Vuoi venire?” le chiese guardandola attraverso lo specchio. In un secondo aveva preso un vestito di velluto blu dall’armadio ed era pronta. E ancora è vivo quel ricordo.
Di quel momento solo loro. Come quando andavano allo stadio a vedere suo padre che giocava a calcio. Lei aveva una pelliccetta bianca, perché l’inverno era freddo, ed umido nella Pianura Padana e ancora se la ricorda quella pelliccia, e si vergogna perché era vera, e questo un po’ le secca, ma erano altri tempi, altre consapevolezze.
Erano sempre insieme e per questo, quando il nonno partì senza salutarla, rimase incredula. Capì che non le dicevano tutto, ma non voleva chiedere, perché temeva la risposta. Decise di aspettare che tornasse. E lo faceva ascoltando la sua musica, la musica del nonno, in salotto, perché era lì che lei lo sentiva, era lì che lui risuonava dentro di lei, e quello era il loro posto, il posto giusto dove stare, e canticchiava, a voce bassa, inventando le parole, ma non era necessario conoscerle, perché era la musica che parlava. E guardava verso la porta ogni volta che sentiva dei passi, o un rumore, anche se sapeva bene che non era lui.
Fingeva di aver creduto, e questo le permise di elaborare con calma, con i suoi tempi la cosa. Sbagliato, certamente, ma aveva sei anni, e non conosceva altri modi. Sarebbe stato meglio però, se l’avesse pianto. Se le avessero fatto vivere quella perdita, perché questo le avrebbe permesso di sentirsi in diritto poi, nel tempo, di piangere di più, di rivendicare il proprio dolore, qualunque fosse. Che invece troppe volte ha tenuto dentro, per non disturbare, per non dare un dispiacere a chi magari, invece, quel dolore glielo aveva procurato. L’ha capito tardi, ma l’ha capito. Perché oggi, invece, lo sa che il dolore va affrontato.
Che, certe volte, farsi vincere è un attimo, e per questo combattere è doveroso anche se il nemico è subdolo e colpisce alle spalle. Perché se eviti la battaglia, sentirai sempre la mancanza di questa lotta che non hai voluto sostenere, per paura o per vigliaccheria.
E, alle volte, non combattere contro il dolore, uccide più del dolore stesso.
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