Chiara Gamberale “Il grembo paterno” alle origini della capacità di amare

Stato Donna, 7 novembre 2021. La storia d’amore, nient’affatto sdolcinata, raccontata da una donna e che anche un uomo dovrebbe e potrebbe leggere, quella del libro di Chiara Gamberale, “Il grembo paterno”, uscito ad ottobre scorso e presentato ieri sera alla biblioteca La Magna Capitana nell’ambito della rassegna “FuoriGliAutori”, organizzata dalla libreria Ubik, dal 2007 presidio di legalità e cultura nella città di Foggia.

A condurre la serata, la stessa autrice del libro, Chiara Gamberale, scrittrice romana di origini molisane, che ha guidato il pubblico presente in sala, con delicata simpatia mista ad ironia ed acume psicologico, nella vicenda narrata e, soprattutto, nelle sue tematiche più profonde, in una sorta di “dialogo con il romanzo”, a cui ha dato voce  la suggestiva lettura di alcuni brani realizzata dall’attrice Elettra Mallaby.

Perché, ha spiegato, la Gamberale, “A me piace condividere le atmosfere, non raccontare troppo la trama. Perché sono convinta che con i film e con i libri ogni lettore fa poi quello che vuole”.
Risultato: un gioco delle parti riuscitissimo dove, a  farla da padrone, è emersa la verve, la passione per la scrittura e per la narrazione di Chiara Gamberale, con, evidenti, i segni della sua esperienza passata di conduttrice in radio ed in televisione.

Protagonista del libro, la storia di Adele, donna di 40 anni che, dopo essere nata e cresciuta in un paesino di provincia, si sposta a Roma per lavoro. Qui, si innamora di Nicola, pediatra di sua figlia Frida che lei si ritrova a crescere da sola. E il momento dell’Amore  diventerà per la protagonista  “Come quello nel quale si sente il bisogno di ritornare al proprio passato per comprenderlo”.

A far scattare, ad un certo punto, una tale necessità, come in una sorta di corto circuito, un’espressione dai suoni vagamente dialettali, usata un giorno da Nicola: “Mo’ è tutto chiaro, Ade’?”. Un’espressione che  la riporterà ad un lessico familiare, alle parole di un tempo, e che  la rimanderà, con la mente e con il cuore, ad un amore primitivo, quello FRA i suoi genitori e quello PER i suoi genitori, Teresa e, soprattutto, Rocco, suo padre, quel “grembo paterno” di cui riferisce il titolo del libro. Un padre che ha sfidato la miseria e conquistato il benessere, ma la cui storia ed il cui comportamento con Adele, da bambina e da adolescente, hanno lasciato un peso ed un segno nella capacità della protagonista di donare amore. Adele, così,  sentirà che forse è arrivata l’ora di fare i conti con quel passato, con la bambina che era stata e con le sue questioni interiori ancora rimaste irrisolte.
“In questo romanzo ci sono tre storie” così la Gamberale nel corso della presentazione “quella di Adele con suo padre; quella di Adele con Nicola; quella di Adele con sua figlia”. E altrettante sono “le lingue utilizzate: la lingua dell’Adele matura, quella dell’Adele bambina, la lingua della figlia di Adele”. Unico, ad ogni modo, il comune denominatore: in esse Adele cercherà di ritrovare se stessa.

Un percorso, questo, in cui ogni donna, ma anche ogni uomo, probabilmente può decidere di rispecchiarsi scoprendo che non è mai così scontato conoscersi e voler bene a se stessi e all’altro, perché questo richiede sempre forza, coraggio, fatica e sacrificio.

Un percorso di ricerca, dunque,  quello di Adele, che può arrivare al lettore come un pugno nello stomaco, perché, scava nel passato, nel presente, ma anche nell’anima, generando emozioni rare e riflessioni intime, forse rimosse.

“Particolarmente emozionata”, si è detta, la scrittrice romana, di presentare “questo libro”, come succede “ancora ogni volta, nonostante io sia al mio quindicesimo libro”. E, inoltre,  “di presentarlo al Sud”, perché in esso si racconta, tra le altre cose, di una famiglia, quella delle origini della protagonista, per la quale sono importanti il fare, le cose, il sudare, non il desiderare; una famiglia che nasce povera e poi diventa più ricca, nella quale capita di dire: “le cose belle non vanno chiamate per nome”, e in cui si rappresentano quella  predisposizione “più al senso del dovere che al senso del piacere e della felicità”, e  quell’attitudine “ad avere fame più che a mangiare” così radicate nel vissuto e nella mente della gente del Meridione.

Daniela Iannuzzi, 7 novembre 2021

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