Stato Donna, 7 ottobre 2021. Ultimo anno di liceo, uno dei miei più grandi desideri si stava avverando: gita di fine anno a Parigi! Tra i tanti ricordi, sicuramente il Louvre merita un posto d’onore perché sono state due le opere che in assoluto mi hanno letteralmente catturata e lasciata senza fiato: la Nike di Samotracia e Amore e Psiche.
Due sculture, una greca, l’altra realizzata dal più grande esponente del Neoclassicismo, Antonio Canova, non a caso soprannominato “il nuovo Fidia”. Ecco, non voglio giustificarmi, però all’epoca non sapevo che sarei diventata una storica dell’arte e quindi, nonostante provassi un’innata riverenza per quelle inestimabili opere d’arte, ho commesso un gesto dettato sicuramente dal rapimento che stavo provando nell’osservare quel marmo così liscio e traslucido: mi sono assicurata che nessuno mi notasse, mi sono avvicinata delicatamente e ho accarezzato il tallone di Amore.
Lo so che non si fa e che oggi, quando vedo qualcuno degli amici con cui organizzo le gite d’arte avvicinarsi troppo alle opere, inizio a bacchettarlo. Poi però sorrido e racconto questo aneddoto che ho “scolpito” nel cuore. Sono passati vent’anni da quel giorno e così ho deciso che non potevo trovarmi in provincia di Treviso e non cogliere l’occasione di andare a Possagno, proprio a casa di Antonio Canova, per carpire il segreto della sua arte così bella e perfetta. L’attuale GYPSOTHECA (dal greco collezione di gessi) è la raccolta monografica più grande d’Europa. La sua costruzione fu iniziata nel 1834 per volere del Vescovo Giovanni Battista Sartori, fratellastro del Canova, mentre l’ultimo, nonché attuale, allestimento fu realizzato nel 1957 dall’architetto veneziano Carlo Scarpa.
Entrare in questo luogo è qualcosa di ammaliante perché ci si ritrova catapultati in un’altra dimensione, quasi sospesa, senza tempo, candida, immobile ma allo stesso tempo viva. I gruppi scultorei e le singole statue di gesso sono eleganti, silenti ma allo stesso tempo esprimono dei sentimenti: la fierezza e l’arguzia nei modelli maschili, la grazia e l’incanto in quelli femminili.
Una collezione dedicata soprattutto alla mitologia classica raccontata a tutto tondo, un incontro ravvicinato con Teseo e il Centauro, Ettore e Paride, Dedalo e Icaro, Perseo e Medusa, Marte e Venere. Ad un tratto però, qualcosa attira la mia attenzione. Alcune delle opere sono costellate di puntini neri, mi avvicino alle tre Grazie e di nuovo, senza accorgermene (lo giuro!), sfioro la coscia di una di loro per capire di cosa si trattasse. Sembrano dei piccoli chiodini conficcati nel gesso.
La mia curiosità trova la risposta all’interno della casa dell’artista, proprio nella stanza dove è allestito il suo studio. Canova aveva un metodo di lavoro molto preciso: prima realizzava la scultura in argilla, poi la rivestiva di gesso; quando il gesso si solidificava, scioglieva l’argilla al suo interno e ne riempiva la forma ricavata. In questo modo produceva “il modello” che cospargeva di questi chiodini di bronzo, posti a distanze ben precise; in questo modo, con l’aiuto dei compassi, i suoi collaboratori potevano sgrezzare il blocco di marmo e arrivare alla forma definitiva dell’opera.
Questo procedimento svela tutta la sua unicità nel fatto che è il marmo ad essere la copia del modello di gesso e che dal modello di gesso si potevano realizzare infinite copie di marmo.
Oltre a tutto questo stupore, ho trovato meravigliosa la pregiatissima collezione di tempere raffiguranti delle minute e leggiadre danzatrici che Canova realizza nei primi anni del 1800, dopo aver ammirato gli affreschi di Ercolano e Pompei.
Insomma, una ricerca della bellezza ideale ed eterna che nasce, secondo l’idea dell’artista, da una perfezione che non è possibile ritrovare in natura e ciò che lo rendeva più impaziente era proprio vedere l’effetto che le sue opere avrebbero suscitato nell’animo del pubblico.
Eleonora Zaccaria
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