“Storia di una violenza psicologica, esiste e può essere insidiosa”

0

Fonte image HopeMedia Italia Mens sana 40

Stato Donna, 6 ottobre 2021 – “Ciao a tutti, sono Sarah e ho subito una violenza. Sono una delle tante che cercava l’Amore ed è invece entrata in un tunnel di bugie, sopraffazioni, tormenti e ricatti morali. Voglio raccontarvi la mia storia perché possiate riconoscere ed imparare, prima di entrare in quel tunnel, la differenza tra l’essere Amati e l’essere usati, ostacolati, vilipesi. Ma soprattutto voglio che, insieme a me, voi possiate riconoscere cosa significhi subire una violenza psicologica”.

Comincia così la testimonianza di Sarah. Una ragazza come tante, come lei stessa dichiara, la quale si rivolge a noi con il chiaro desiderio di raccontare, chiarire le sfumature e i toni di un fenomeno che si fa strada ormai anche nelle relazioni interpersonali della gente del nostro Comune. Il fenomeno in questione è quello della violenza psicologica.

Ma cos’è la violenza psicologica?

Un clima di disapprovazione continua dove qualsiasi atteggiamento o comportamento viene ritenuto sbagliato, inadatto. E questo non è tanto perché, come chi perpetra violenza psicologica vorrebbe far credere, è un comportamento ad essere preso di mira, ma è invece presa di mira la persona in quanto tale, in ogni cosa che fa ed in cui manifesti la propria individualità e la propria identità. Non a caso la violenza psicologica, silenziosa ed invisibile ma non per questo meno devastante di quella fisica, viene esercitata sulle donne per lo più in famiglia o nella coppia, da un padre, un marito o un fidanzato che, in questo modo, ribadisce il proprio dominio e la propria superiorità. Parole, gesti, toni allusivi, offese velate o esplicite che possono umiliare, distruggere lentamente ma in profondità, senza sporcarsi le mani.

Nella coppia la violenza psicologica è spesso negata e banalizzata. Si tende troppo spesso a considerare la donna complice dell’aggressore perché non riesce, non sa o non vuole ribellarsi, ma questo è esattamente il risultato della violenza esercitata. La vittima di violenza psicologica è paralizzata, confusa, sente il dolore, la sofferenza emotiva, ma non riconosce l’aggressione subita. E la cosa più terribile è proprio quando questo atteggiamento viene attuato da una persona cara, che si ama o si è amata profondamente e verso la quale ci si è aperti e con fiducia.

La violenza psicologica è un processo di distruzione costituito da manovre ostili che possono essere esplicite o nascoste. La svalutazione di tutto ciò che una persona fa o pensa, a cui è interessata o in cui crede. Oppure la limitazione della libertà di movimento, come impedire alla donna di uscire da sola magari adducendo motivi circa la pericolosità dei luoghi, degli orari, o trasformando la rinuncia come prova d’amore o di fedeltà. Sarah è solo un nome fittizio. Non è rivelare la proprio identità ciò che le interessa. Il vero intento è fare sì che la propria esperienza serva a chi subisce nella convinzione di farlo per amore perdendo di vista il fatto che l’AMORE VERO non umilia né fa subire.

“Ero una ragazza serena e solare. Un bel giorno ho incontrato lui. Le sue attenzioni, il suo essere presente mi hanno fatto innamorare.” continua il racconto Sarah.

“Io, lui, il mondo e i miei sogni. Mi sembrava di avere tutto… Poi mi ha chiesto di sposarlo. Ed è stato come toccare il cielo con un dito. Ma nei mesi successivi le cose sono cambiate.” È normale – penserete. – Accade in tutte le coppie dopo il matrimonio. Ma non era semplicemente questo. Come mai? Cosa è successo?

“I miei amici… I miei affetti…

Nel giro di poco tempo, io mi sono ritrovata isolata… Per la sua gelosia opprimente, io mi sono ritrovata a non frequentare più delle persone care nella convinzione che avere lui nella mia vita potesse bastare. Ed era pertanto così facile per T. rendermi dipendente da lui, sia sul piano psicologico che sul piano fisico. E mi sembrava di non avere più bisogno della mia famiglia e dei miei. Non capivo che lui mi impediva in modo subdolo di mantenere i contatti con gli altri.

E intanto ridicolozzava le mie convinzioni, il mio credo morale. Un puro lavaggio del cervello fatto di battute e parole sottili che insinuavano in me l’idea che fossimo io ed il mio mondo ad essere SBAGLIATI. E che lui fosse l’unico a potersi prendere cura di me.”

Raccontaci qualche episodio.

“Ricordo quando conobbi sua madre. Le sue parole risuonarono strane allora. Mi disse velatamente della sua pericolosità. Col tempo capii che c’era un fondo di verità in quanto mi era stato riferito. T. Si arrabbiava pe run nonnulla, con me ripetendomi continuamente che era colpa mia qualunque cosa di negativo gli accadesse. E inoltre controllava, anche quando non ne ero consapevole, ogni mio movimento… Compariva inaspettatamente nei posti in cui mi trovavo: ed io solo ora realizzo che in quei luoghi, pur di isolarmi dal mondo, egli insinuava nella mente della gente un’immagine distorta di me, parlando male di me”.

Ma quale poteva essere il suo obiettivo? Quale poteva essere la ragione che lo spingeva a tali bassezze? “Ad un certo punto io sono crollata. Le accuse psicologiche, il sentirmi posta in cattiva luce e guardata con diffidenza da gente che fino a poco prima mi stimava aveva creato in me una tale insicurezza per cui neanch’io sapevo più cosa pensare e in cosa credere o in chi. Da lui però non arrivava alcun aiuto. Mentre dalla mia vulnerabilità lui avrebbe guadagnato la possibilità di godere da solo di tutto quanto di economico e materiale avevo.”
Qual è, Ssarah, la cosa più difficile che hai dovuto sopportare in quel periodo?

La cosa più difficile è stata essere creduta. Io non avevo prove, non avevo testimoni, non avevo lividi. Una donna che subisce violenza ha sempre un occhio nero, io non avevo neppure un’unghia spezzata. Perché la mia violenza era fatta di pugni sferrati con gli sguardi, di calci dati con le parole, di schiaffi assestati con le assenze, i silenzi e i rifiuti. Era una violenza morale, psicologica. Di quelle che non lasciano segni esteriori, anche se dentro la tua anima è tumefatta e tu sei peggio di una che agonizza nella sua pozza di solitudine”.

Ma hai poi trovato la forza di reagire a una tale situazione? “Volevo disperatamente allontanarmi da lui, ma la condizione psicologica della quale ero vittima non lo permetteva. Un giorno comunque scoprii particolari che non mi aveva raccontato della sua vita e che mi convinsero finalmente a porre fine ad una situazione diventata ormai insostenibile”.

Cosa ti senti di consigliare a chi si trova in una situazione come la tua?
“Prima di tutto di riconoscerla. Spesso siamo convinte di vivere una situazione “normale”, siamo convinte di meritarcela, anche se dentro sappiamo bene che non è così. Bisogna poi imparare ad ascoltare il nostro corpo, il nostro istinto, le nostre intuizioni, chiedere aiuto, parlarne con qualcuno. Non tenere tutto all’interno della coppia. Se il nostro compagno ha un problema deve affrontarlo con le persone giuste. Non stiamo con loro per risolvere i loro problemi. Non è in quello il senso dello stare insieme. Il rispetto, l’aiuto reciproco, la comunicazione sono le vere fondamenta di un rapporto sano. Dobbiamo avere il coraggio di dire “hai un problema ma non sono io che posso aiutarti”. E, soprattutto, non dobbiamo avere paura di rimanere da sole”.
Il buono arriva quando siamo sufficienti a noi stesse. Il rapporto non deve colmare un vuoto, deve essere un arricchimento, portare un valore aggiunto. Ma non bisogna correre il rischio di capirlo solo dopo. Anzi, non bisogna smettere di avere dei sogni e semmai cercare una persona che ne abbia di propri, che insieme a noi voglia condividerli, realizzarli e aiutarci a realizzare i nostri.

Daniela Iannuzzi, maggio 2017