Di Nicola: “I femminicidi? Quando una donna decide sulla propria libertà”
Stato Donna, 6 ottobre 2021. Incontro letterario con Paola Di Nicola presso la sala Fedora di Foggia. E’ stato organizzato dall’associazione “Impegno donna” e ha visto la partecipazione del sostituto procuratore del Tribunale di Foggia Vincenzo Bafundi, di Franca Dente, presidente dell’associazione e della giornalista Anna Lisa Graziano. La presentazione del libro della giudice Di Nicola (“questo è il cognome di mia madre che ho scelto di portare”, ha fatto sapere il magistrato”) “La mia parola contro la sua, quando il pregiudizio è più importante del giudizio”, edito da HarperCollins Italia, era prevista nel mese di marzo, rimandata causa Covid. Per questo, in sala la presenza del pubblico era ridotta di 1/3 rispetto alla sua capienza.
In apertura dei lavori, Franca Dente ha ricordato l’uccisione di Francesco Traiano che gestiva con il nipote Alfredo un bar: “Alfredo, orfano di femminicidio, è un nostro testimonial, ha lavorato con noi, con tutti quelli che gradivano la sua testimonianza e che ogni volta ha aperto luce e speranza, chiuse in un battibaleno”. Riguardo al libro, “è scorrevole, chiaro, non ci nascondiamo che il lavoro è difficilissimo perché tutti siamo in qualche modo assorbiti da stereotipi e pregiudizi. Nel sistema giudiziario si è insinuato e strutturato, anche inconsapevolmente, un pensiero sessista che trova riscontro in sentenze che non condividiamo per una serie di ragioni”.
Alcune metafore del libro Franca Dente le ha fatte proprie, estrapolate e riproposte durante alcuni momenti, come la fiaccolata per Federica Ventura due anni fa a Foggia. “Siamo avvolte dal pulviscolo, l’aria è piena di pregiudizi, dobbiamo metterci vicino a una finestra per vedere meglio, sembrano innocui ma non ci fanno respirare”. Lisa Graziano ha chiesto dei “pregiudizi in ogni parte del mondo contro la donna, e qual è il primo passo che dobbiamo fare per indossare questi occhiali di genere di cui si parla nel libro”. “E’ difficile vedere gli stereotipi- ha spiegato l’autrice- perché tutto il contesto opera affinché non li vediamo, istituzionale, sociale, culturale, economico, a cominciare dall’ identità. Io mi rappresento ma non mi ero mai accorta che mancasse mia madre, siamo figli e figlie di nostra madre, del suo sangue, del suo dna. La certezza è di nascere da una madre, ma ci rappresentiamo come figli di un padre. Le donne non hanno identità, fanno storia, letteratura, scienza ma non hanno identità. Noi non lo vediamo perché il contesto ci rende come ‘ordine naturale’ l’assenza delle donne, se chiedessi agli uomini di togliersi il cognome come si sentirebbero? Dal giorno in cui nasciamo ci impongono una sorta di opposizione dei generi che ci impone una gerarchia con le donne subordinate. Noi non ci siamo nei nomi delle piazze e delle strade, nomi di storiche, filosofe, scienziate, ma solo con alcuni, quelli di sante o di regine. Voi dovete guardare e poi scegliere, e poi decidere, ma demolire quell’apparato invisibile posto come ordine naturale”.
Ha parlato di femminilità che rimanda a divieti, a limitazioni, “sono femminile se mi metto la gonna stretta con cui non mi posso muovere, i tacchi che mi rendono instabile, la scelta dei canoni è fondata sul ridimensionamento della capacità femminile di contro alla forza maschile. Quando vedrò una donna che fa pugilato e un uomo che fa danza aldilà dei pregiudizi, senza ricercare modelli, allora potremo dire di essere un paese libero”. “Lavorare con gli uomini è importante”, ha risposto l’autrice alla domanda di Graziano, “ma lui è ingabbiato in un sistema di potere in cui non può cedere a quelle che sono le presunte virtù femminili, sensibilità, fragilità, dedizione alla cura, incapacità di ambizioni, assenza di coraggio, così le donne sono rappresentate, questi sono alcuni “valori” diffusi, e dell’uomo che sta a casa con i figli non si può parlare se non con vergogna, come di una donna che sta tutto il giorno fuori casa”.
Insomma non “quisquilie” ma 40mila anni di storia, questioni culturali che hanno una radice millenaria e che si ripropongono ogni giorno “come fossero naturali ma non lo sono, è un vincolo di minorità cui si lega la donna in ogni contesto religioso, culturale e ordinamentale. Quando lo vedi non ti fermi più”.
Molte le indicazioni del sostituto procuratore Bafundi a proposito delle procedure della denuncia, “necessaria perché non si rischia nulla, se si fa una segnalazione di una possibile violenza. Manca il dialogo interistituzionale fra le agenzie di territorio e la magistratura”. Sul codice rosso, nel complesso di una riforma con luci e ombre, ha spiegato “come spesso le denunce dal magistrato tornino ai carabinieri per rilevarne la gravità e ascoltare la vittima, qualche volta la denuncia è presa in maniera sommaria ma quello è il momento importante delle dichiarazioni. Chiaro che per i casi più delicati ci si rivolge al magistrato. Il codice rosso ha creato un’emersione verticale, violenta, anche di casi di mera conflittualità la maggior parte dei quali finiscono in archiviazione, i veri casi restano silenti”.
Si parla molto della narrazione del femminicidio da parte dei mass media, delle parole “errate”, del “raptus” maschile che giustifica. Questo discorso è stato affrontato da Di Nicola: “La questione non riguarda solo i mass media, che spesso riportano sentenze, ma tutti noi, riguarda anche la magistratura, il contesto sociale, culturale e istituzionale, riguarda quello per cui non crediamo alle donne che hanno paura della mia toga, della divisa, del camice, Le donne sanno di essere le uniche vittime di reato che se entrano in un commissariato non sono credute. Allora, vogliamo cercare di capire qual è a nostra responsabilità? Se c’è una denuncia per maltrattamenti in famiglia e noi la configuriamo come conflittualità, abbiamo chiuso per sempre la bocca a quella donna”. Poi il giudice ha posto una domanda: “E a me giudice, chi insegna la differenza? Sapete che noi non abbiamo un obbligo di formazione su questo tema? Noi approfondiamo perché lo riteniamo doveroso, eppure questi sono i reati più difficili da leggere. Lo decido io poliziotto, carabiniere, magistrato, e sulla base di cosa? Sulla base della formazione, sulla mia capacità di dare forma a quello che mi viene raccontato, sulla base di quell’architrave che vi ho detto, l’ordinarietà del contesto familiare, non si entra nella famiglia… Quindi la formazione obbligatoria di tutti quelli che a qualsiasi titolo hanno a che fare con le donne vittime di violenza. Non abbiamo di fronte una donna che non vuole denunciare, che omette, che confonde, non perché pazza e inadeguata o fascia debole ( le donne non sono deboli, quelle che denunciano, il 10%, sono le più forte di tuti). La violenza contro le donne è come la mafia, come se chiedessimo a una vittima di mafia di raccontare tutto com’è, senza preoccupazione di quando torna a casa con il mafioso”.
C’è anche la questione della ritrattazione: “Di fronte a questo non si deve ritenere che la vittima è confusa ma che quel reato prosegue in modo peggiore. Gli strumenti normativi li abbiamo tutti, ma non dal codice rosso, da prima, come le intercettazioni, il problema è che l’applicazione delle norme non è rigorosa. I femminicidi avvengono perché una donna ha deciso di esercitare il proprio diritto di libertà, ha violato una regola sociale, la soggezione, la sottomissione, quando quello donna viola la regola viene uccisa”. Quando si scrive del “raptus”, questa rappresentazione di uomini che non accettano è volta a giustificarlo, ‘lui ha perso il suo appiglio sentimentale’, è una rappresentazione giustificazionista che nessuno di noi si deve permettere di utilizzare”. Il discorso si è esteso al territorio: “Quando c’è un femminicidio tutti sanno da tempo ma nessuno si è mosso, questo interpella una responsabilità collettiva”.
Franca Dente, dopo che Graziano ha chiesto a che punto fosse la sua attuazione, ha parlato del “protocollo viola”, firmato a novembre del 2019 fra varie istituzioni: “Va perfezionato, vanno attivati i tavoli tecnici, bisogna costruire il percorso. La questione è la formazione per tutti, nel 70% dei femminicidi la donna aveva già denunciato ma questi dati vengono letti in maniera parcellizzata. In molti casi la donna non sa leggere i segnali, non conosce i propri diritti negati, oggi per la formazione e le linee guida ci sono strumenti e centri diffusi sul territorio”.